In collaborazione con la Fondazione Cuciniello, presso la loro sede, mercoledì 16 ore 18,30 in corso Italia 125 Ercolano, riunione di zona del movimento "cittadini per il Parco" per i comuni di Torre del Greco, Ercolano, Portici e San Giorgio a Cremano.
La nascita del Parco Nazionale del Vesuvio, 15 anni or sono, avvenne quasi in sordina. Le singole amministrazioni comunali aderirono quasi per inerzia, una volta appurato che, almeno nell’immediato, l’adesione al Parco non comportasse ulteriori restrizioni in ambito edilizio, rispetto alla normativa preesistente. Una generica e velleitaria, in quanto generica, propensione a “sviluppare il turismo” fornì una motivazione plausibile e gli amministratori decisero di aderire al Parco senza porsi troppe domande, ma anche con poche idee e confuse.
La popolazione, a parte qualche gruppo di interesse, rimase sostanzialmente estranea a questo dibattito. Gli ambientalisti salutarono con entusiasmo la nascita del nuovo ente; altri temevano che l’istituzione del Parco potesse comportare nuovi vincoli “al fare”. Vincoli a costruire soprattutto. Già, perché il mattone, ovvero l’abusivismo edilizio, insieme ai ristoranti da cerimonia, alle cave e alle discariche abusive, hanno costituito per decenni “il modello di sviluppo” dominante nell’area “a monte” dei centri urbani.
In quel momento storico, quel modello di sviluppo era senso comune, pratica condivisa, cultura dominante. E oggi? Oggi le ultime cave sono state dismesse; l’antica “vocazione” alle discariche ha trovato il suggello nelle discariche di Stato; i novelli sposi sono alla ricerca di “location” meno maleodoranti e più suggestive per il loro giorno più bello; l’agricoltura, che già quindici anni fa era stremata e cedeva superficie alla speculazione edilizia, è ridotta a testimonianza; in compenso l’abusivismo edilizio dà segni di ripresa.
Tuttavia possiamo affermare che il “modello di sviluppo vesuviano” è sostanzialmente andato in crisi. Il territorio è stato consumato e ha perso “appeal”. Ma la nascita del Parco non doveva favorire un modello di sviluppo alternativo? Cosa ne é stato delle legittime speranze per un “altro” Vesuvio? La vicenda delle discariche di Stato è solo l’ultimo colpo ad un progetto già in
agonia. Il Parco non è mai decollato. E, in effetti, che cosa avrebbe potuto essere e non è stato? Quale futuro era, forse è ancora, lecito aspettarsi? Un modello di sviluppo “alternativo” potrebbe nascere in realtà dalla valorizzazione di due antichissime vocazioni dell’area, precedenti all’ “era del mattone”, quella agricola e quella turistica.
Una antica civiltà contadina, ricca di saperi e di prodotti, alcuni dei quali dalla fama leggendaria, è stata progressivamente spazzata via dalla pressione demografica proveniente “dal basso” e dalla speculazione edilizia. L’agricoltura vesuviana era debole strutturalmente. Maggiori costi di produzione, basse rese, stessi prezzi al mercato rispetto ai prodotti provenienti dai territori limitrofi. Andava valorizzata per tempo la straordinaria qualità organolettica dei suoi prodotti. Non è stato fatto. La viticoltura perde ogni anno superfici vitate. La grande coltura e cultura dell’albicocco è ormai relegata in pochi comuni del monte Somma. Oggi l’agricoltura vesuviana, sempre più accerchiata dal cemento, mortificata e screditata dalla cosiddetta “crisi dei rifiuti”, appare incapace di proporsi come il fulcro di un rilancio anche turistico del territorio. Ciononostante e incredibilmente, con il “pomodorino del piennolo del Vesuvio”, l’Italia ha ottenuto recentemente una nuova DOP.
Il turismo è una vocazione antichissima. L’ascesa al Vesuvio era un classico del Grand Tour ottocentesco. Ogni anno circa 500.000 persone visitano il cratere del Vesuvio, ma intorno al Gran Cono non siamo stati capaci di costruire dei percorsi turistici che valorizzassero le risorse del territorio e una rete di servizi a supporto.
L’unica “economia turistica” che si è stati in grado di produrre è stata quella dei “ristoranti sul Vesuvio”. Una economia importante, in termini di fatturato e per numero di addetti, quella dei ristoranti da cerimonia; peccato che spesso, quasi sempre, si sia trattato di nuove costruzioni, tutte rigorosamente abusive, esteticamente oscene, che offendono il paesaggio e fanno terra bruciata intorno a sé. Una ristorazione senza nessun legame con il territorio, che non fosse quello, talvolta, di una “veduta panoramica”, tra un parcheggio e un “Luna Park” per intrattenere i bambini, che oggi paga il conto di un uso dissennato e vorace del territorio. Un modello di turismo perfettamente compatibile quindi con l’edilizia abusiva privata e con il business delle discariche illegali di rifiuti più o meno pericolosi. Il territorio come bene da consumare. Il Vesuvio come bene turistico “mordi e fuggi”.
Poche le strutture alberghiere, per lo più connesse alla attività del turismo da cerimonia, destinate ad una clientela locale di coppiette o amanti in fuga dai rispettivi tetti coniugali.
I nodi da sciogliere per costruire un modello di sviluppo alternativo passano ancora per la risposta a queste domande (quale turismo?), per la risoluzione di antiche questioni.
Recupero di una dimensione produttiva per l’agricoltura. Sviluppo di un turismo sostenibile. Tutela e valorizzazione turistica dei siti di interesse naturalistico.
Sono questi i capisaldi intorno ai quali costruire una economia sostenibile capace di creare centinaia di nuovi posti di lavoro, migliorando al contempo le condizioni di vita degli stessi residenti.
Occorrono investimenti pubblici significativi, opere pubbliche per il riassetto idrogeologico e il ripristino della viabilità rurale, sinergie e concertazione con i privati che vogliano investire correttamente, garantire una manutenzione costante della sentieristica del Parco, politiche mirate di sostegno alle attività agricole, azioni efficaci e professionali di marketing territoriale; occorre che insieme al progetto, alle volontà e agli investimenti, si verifichino alcune pre-condizioni: un fermo stop all’abusivismo edilizio, che ha rialzato la testa; una bonifica a tappeto delle discariche vecchie e nuove; un sistema efficace di monitoraggio del territorio e di vigilanza delle aree protette.
L’ultima condizione, ma essenziale, affinché queste ipotesi di sviluppo possano essere seriamente perseguite, è, non solo, come è ovvio, che esse vengano condivise dai decisori politici, ma anche che le politiche atte a realizzarle siano coordinate e programmate da una regia politica e istituzionale unitaria. E veniamo quindi al ruolo dell’Ente Parco.
Quali sono i poteri dell’Ente Parco? In che modo e misura i comuni partecipano alla definizione delle politiche dell’ente? Può essere l’Ente Parco l’organismo politicoistituzionale in grado di svolgere questo ruolo di “regia”? Procedere verso la costituzione di “Unioni comunali” all’interno dell’area Parco, come previsto dal decreto legge 18 agosto 2000 n.267, può favorire l’adozione di politiche di sviluppo territoriale più efficaci?
I poteri del Parco sono più limitati di quanto non si creda. Solo oggi, a distanza di quindici anni, con l’approvazione avvenuta in consiglio regionale del Piano urbanistico del Parco, esiste uno strumento urbanistico a cui i piani regolatori dei comuni devono conformarsi. Ma manca ancora il regolamento attuativo, senza il quale anche i compiti e i poteri di tutela dell’ente, restano indeterminati. Alle dipendenze funzionali del Parco c’è una unità del corpo forestale, il CTA, che conta circa 50 addetti. Non tantissimi quindi. Porzioni importanti del territorio, come la riserva Alto Tirone della Guardia sono invece “demanio” e sotto la giurisdizione del corpo forestale. Solo da qualche anno l’area del Gran Cono e anche i proventi che si ricavano dalle visite (per la maggior parte redistribuiti alle guide), sono stati trasferiti nella diretta responsabilità giuridica dell’ente. Tra gli organismi di governo dell’ente c’è “la comunità del Parco”, un organo consultivo, che tuttavia nomina 5 membri su 12 nel Consiglio direttivo, in cui siedono i rappresentanti di tutti i comuni che fanno parte del Parco e che approva il piano pluriennale economico e sociale.
Ma aldilà di ogni valutazione su quanto “pesino” i comuni all’interno degli organismi dirigenti del Parco e di quanto potere decisionale sia invece investita la figura del Presidente, di nomina ministeriale, e del consiglio direttivo, quello che qui si vuole sottolineare, è che i comuni non hanno mai ritenuto che il Parco potesse essere la loro “casa comune”, il luogo istituzionale in cui progettare, pianificare e programmare lo sviluppo dei rispettivi territori, in una visione unitaria. E’ mancata e manca tuttora negli amministratori la consapevolezza della interdipendenza che lega i destini degli uni agli altri. D’altra parte lo stesso Ente Parco avrebbe dovuto qualificarsi in questi anni come “agenzia di sviluppo”; come un “think tank” al servizio di una missione comune. Per far questo avrebbe dovuto dotarsi di professionalità di altissimo profilo in molti campi del sapere scientifico ed economico, così da porsi come interlocutore autorevole rispetto agli enti locali. Anche questo non è avvenuto. Il Parco quindi è stato vissuto dai comuni come una fonte di finanziamento occasionale, beneficiaria di finanziamenti pubblici ed europei legati a singole
progettualità, ce sono stati, di volta in volta, sistematicamente spartiti tra gli enti locali tenendo conto delle rispettive “grandezze” e non utilizzati secondo logiche e progettualità che facessero prevalere un disegno strategico sugli interessi particolari. Così come gli amministratori locali non hanno saputo o voluto vedere nell’ Ente Parco il possibile fulcro intorno al quale coordinare le politiche di sviluppo territoriale, parimenti non si è sviluppato nei nostri comuni alcun dibattito significativo sulle opportunità offerte dalla legislazione di procedere ad una integrazione, anche solo parziale, di compiti e funzioni di enti locali contigui, le cosiddette Unioni Comunali.
E’ di tutta evidenza come, all’interno dell’area Parco e anche al di fuori di essa, vi siano tutte le condizioni, e la convenienza, a procedere speditamente verso queste forme di integrazione. I campanilismi o la strenua difesa del proprio orticello elettorale, mal si conciliano con la necessità di affrontare e risolvere problemi che potrebbero essere più efficacemente affrontati e risolti se posti su una scala territoriale più ampia. All’interno dell’area Parco potrebbe nascere più di una “Unione”; questa integrazione favorirebbe a sua volta la composizione degli interessi collettivi all’interno dell’Ente Parco e finalmente la programmazione di interventi strategici nell’ottica di un approccio sistemico allo sviluppo dell’area.
Naturalmente, non si può immaginare di imprimere una inversione di tendenza a “monte”, se tutto resta come prima “a valle”, né si possono immaginare “muri divisori” che separino il Parco dalle aree più urbanizzate. Già alcuni comuni del Parco, tra i più estesi territorialmente, vivono la condizione schizofrenica di avere parte del proprio territorio nel Parco e parte al di fuori di esso. Sono le cosiddette “aree contigue”. Esse sono costituite dai centri urbani di città grandi come Ercolano e Torre del Greco, ovvero dalle aree urbanizzate dei comuni del monte Somma. Vi sono poi i centri urbani di comuni come Portici, San Giorgio, Cercola, Torre Annunziata, che pur non facendo parte del Parco, esercitano una indubbia “pressione” sulle aree a monte.
Noi crediamo che un disegno efficace di sviluppo per l’area Parco difficilmente possa immaginarsi prescindendo dal decongestionamento e da una credibile ipotesi di riconversione economica e produttiva della cinta urbana “a valle”. Occorre quindi, pur nella specificità delle singole realtà territoriali e dei rispettivi tessuti produttivi, ricercare delle linee di continuità tra lo sviluppo dei centri urbani e lo sviluppo dell’area Parco.
Certamente il turismo e il rilancio dell’artigianato costituiscono il naturale “trait d’union” tra la costa del Vesuvio e l’area a “monte”. Basti pensare all’enorme patrimonio, in gran parte inutilizzato, costituito dalle ville settecentesche del Miglio D’oro; all’area archeologica di Ercolano; alla manifattura del corallo. Non è difficile immaginare dei percorsi turistici che si snodino dalle Ville settecentesche alle Masserie; dagli scavi di Ercolano ai sentieri del Parco Vesuvio; dai laboratori dell’arte orafa alle cantine del Lacryma Christi. La riconversione, ai fini dello sviluppo turistico, dei piccoli porti di Torre del Greco e dello storico approdo borbonico del Granatello a Portici, oggi oggetto di un programma di recupero, aggiungerebbero un altro fondamentale tassello a questo quadro di rilancio. Più complessa appare la convivenza di altre attività, industriali e dei servizi, con le esigenze di una “green economy”. Il caos urbanistico e l’anarchia del costruire da una parte, la mancanza di spazio per insediare tali attività dall’altra, hanno portato ad insediamenti disordinati e ad una pressione antropica verso le aree a monte, le uniche
disponibili, andando a pregiudicare, in una ampia fascia “pedemontana”, la possibilità di uno sviluppo coerente con le finalità dell’Ente Parco. Da questa “empasse”, se ne può uscire soltanto con una difesa strenua delle aree di pregio rimaste in equilibrio ambientale, ancorché precario, ma anche con la razionalizzazione dell’esistente e la individuazione, finalmente, di aree di sviluppo industriale e dei servizi, verso le quali incentivare le imprese a delocalizzare gli impianti, decongestionando i centri urbani e i centri storici, recuperando suoli nella fascia pedemontana, restituendo vivibilità ai residenti e opportunità per lo sviluppo turistico ai centri storici, anche sul piano della ricettività alberghiera e della ospitalità diffusa.
Questi i fatti. Questa l’analisi. In una recente e contrastata trasmissione televisiva di successo, gli autori si domandavano a vicenda: resto perchè? Vado via perché? Una volta scelta la prima opzione, bisogna tuttavia che il nostro restare abbia una prospettiva, confidi di trovare una via di uscita positiva alla insopportabilità e al nichilismo della situazione odierna. Ecco, noi vogliamo lavorare alla individuazione di questa exit strategy, che è in realtà la ricerca di una strategia per restare, ovvero per cambiare profondamente in meglio i luoghi in cui viviamo.
La domanda che ci poniamo allora è: cosa possiamo fare per cambiare questo stato di cose?
La nostra ricetta è semplice, sicuramente difficile da realizzare, ma, ne siamo convinti, essa rappresenta la sola strada percorribile: solo costruendo una mobilitazione di centinaia e migliaia di persone a sostegno di un modello di sviluppo alternativo, sarà possibile condizionare i decisori politici ad agire in maniera coerente e consequenziale al raggiungimento di questi obiettivi. Solo se si creerà un fortissimo movimento di opinione, in grado di interloquire autorevolmente con la politica e con le istituzioni, le nostre richieste potranno essere accolte.
Solo se i nostri valori, i nostri principi, la nostra visione, le nostre proposte, l’idea stessa di un modello di sviluppo diverso, diventeranno sentire comune di molte più persone di quanto non lo siano oggi, sarà possibile determinare un cambiamento profondo nel nostro vivere sociale, del nostro modo di vivere e del nostro rapporto con il territorio e l’ambiente in cui viviamo.
Per questo vi chiediamo di unirvi a noi, per costituire una rete di tutti i gruppi e le associazioni attive nei comuni dell’area Parco che condividano i valori, le analisi e le proposte di questo appello. Per condividere il nostro impegno, per arricchire la nostra proposta con le vostre proposte, per moltiplicare le nostre energie, per lavorare insieme a far crescere sensibilità e mobilitazione per un futuro migliore per tutti.
CIA (confederazione italiana agricoltori) di Napoli e Caserta
Legambiente Campania
Rete dei comitati antidiscarica vesuviani
Condotta Slow Food Vesuvio
La nascita del Parco Nazionale del Vesuvio, 15 anni or sono, avvenne quasi in sordina. Le singole amministrazioni comunali aderirono quasi per inerzia, una volta appurato che, almeno nell’immediato, l’adesione al Parco non comportasse ulteriori restrizioni in ambito edilizio, rispetto alla normativa preesistente. Una generica e velleitaria, in quanto generica, propensione a “sviluppare il turismo” fornì una motivazione plausibile e gli amministratori decisero di aderire al Parco senza porsi troppe domande, ma anche con poche idee e confuse.
La popolazione, a parte qualche gruppo di interesse, rimase sostanzialmente estranea a questo dibattito. Gli ambientalisti salutarono con entusiasmo la nascita del nuovo ente; altri temevano che l’istituzione del Parco potesse comportare nuovi vincoli “al fare”. Vincoli a costruire soprattutto. Già, perché il mattone, ovvero l’abusivismo edilizio, insieme ai ristoranti da cerimonia, alle cave e alle discariche abusive, hanno costituito per decenni “il modello di sviluppo” dominante nell’area “a monte” dei centri urbani.
In quel momento storico, quel modello di sviluppo era senso comune, pratica condivisa, cultura dominante. E oggi? Oggi le ultime cave sono state dismesse; l’antica “vocazione” alle discariche ha trovato il suggello nelle discariche di Stato; i novelli sposi sono alla ricerca di “location” meno maleodoranti e più suggestive per il loro giorno più bello; l’agricoltura, che già quindici anni fa era stremata e cedeva superficie alla speculazione edilizia, è ridotta a testimonianza; in compenso l’abusivismo edilizio dà segni di ripresa.
Tuttavia possiamo affermare che il “modello di sviluppo vesuviano” è sostanzialmente andato in crisi. Il territorio è stato consumato e ha perso “appeal”. Ma la nascita del Parco non doveva favorire un modello di sviluppo alternativo? Cosa ne é stato delle legittime speranze per un “altro” Vesuvio? La vicenda delle discariche di Stato è solo l’ultimo colpo ad un progetto già in
agonia. Il Parco non è mai decollato. E, in effetti, che cosa avrebbe potuto essere e non è stato? Quale futuro era, forse è ancora, lecito aspettarsi? Un modello di sviluppo “alternativo” potrebbe nascere in realtà dalla valorizzazione di due antichissime vocazioni dell’area, precedenti all’ “era del mattone”, quella agricola e quella turistica.
Una antica civiltà contadina, ricca di saperi e di prodotti, alcuni dei quali dalla fama leggendaria, è stata progressivamente spazzata via dalla pressione demografica proveniente “dal basso” e dalla speculazione edilizia. L’agricoltura vesuviana era debole strutturalmente. Maggiori costi di produzione, basse rese, stessi prezzi al mercato rispetto ai prodotti provenienti dai territori limitrofi. Andava valorizzata per tempo la straordinaria qualità organolettica dei suoi prodotti. Non è stato fatto. La viticoltura perde ogni anno superfici vitate. La grande coltura e cultura dell’albicocco è ormai relegata in pochi comuni del monte Somma. Oggi l’agricoltura vesuviana, sempre più accerchiata dal cemento, mortificata e screditata dalla cosiddetta “crisi dei rifiuti”, appare incapace di proporsi come il fulcro di un rilancio anche turistico del territorio. Ciononostante e incredibilmente, con il “pomodorino del piennolo del Vesuvio”, l’Italia ha ottenuto recentemente una nuova DOP.
Il turismo è una vocazione antichissima. L’ascesa al Vesuvio era un classico del Grand Tour ottocentesco. Ogni anno circa 500.000 persone visitano il cratere del Vesuvio, ma intorno al Gran Cono non siamo stati capaci di costruire dei percorsi turistici che valorizzassero le risorse del territorio e una rete di servizi a supporto.
L’unica “economia turistica” che si è stati in grado di produrre è stata quella dei “ristoranti sul Vesuvio”. Una economia importante, in termini di fatturato e per numero di addetti, quella dei ristoranti da cerimonia; peccato che spesso, quasi sempre, si sia trattato di nuove costruzioni, tutte rigorosamente abusive, esteticamente oscene, che offendono il paesaggio e fanno terra bruciata intorno a sé. Una ristorazione senza nessun legame con il territorio, che non fosse quello, talvolta, di una “veduta panoramica”, tra un parcheggio e un “Luna Park” per intrattenere i bambini, che oggi paga il conto di un uso dissennato e vorace del territorio. Un modello di turismo perfettamente compatibile quindi con l’edilizia abusiva privata e con il business delle discariche illegali di rifiuti più o meno pericolosi. Il territorio come bene da consumare. Il Vesuvio come bene turistico “mordi e fuggi”.
Poche le strutture alberghiere, per lo più connesse alla attività del turismo da cerimonia, destinate ad una clientela locale di coppiette o amanti in fuga dai rispettivi tetti coniugali.
I nodi da sciogliere per costruire un modello di sviluppo alternativo passano ancora per la risposta a queste domande (quale turismo?), per la risoluzione di antiche questioni.
Recupero di una dimensione produttiva per l’agricoltura. Sviluppo di un turismo sostenibile. Tutela e valorizzazione turistica dei siti di interesse naturalistico.
Sono questi i capisaldi intorno ai quali costruire una economia sostenibile capace di creare centinaia di nuovi posti di lavoro, migliorando al contempo le condizioni di vita degli stessi residenti.
Occorrono investimenti pubblici significativi, opere pubbliche per il riassetto idrogeologico e il ripristino della viabilità rurale, sinergie e concertazione con i privati che vogliano investire correttamente, garantire una manutenzione costante della sentieristica del Parco, politiche mirate di sostegno alle attività agricole, azioni efficaci e professionali di marketing territoriale; occorre che insieme al progetto, alle volontà e agli investimenti, si verifichino alcune pre-condizioni: un fermo stop all’abusivismo edilizio, che ha rialzato la testa; una bonifica a tappeto delle discariche vecchie e nuove; un sistema efficace di monitoraggio del territorio e di vigilanza delle aree protette.
L’ultima condizione, ma essenziale, affinché queste ipotesi di sviluppo possano essere seriamente perseguite, è, non solo, come è ovvio, che esse vengano condivise dai decisori politici, ma anche che le politiche atte a realizzarle siano coordinate e programmate da una regia politica e istituzionale unitaria. E veniamo quindi al ruolo dell’Ente Parco.
Quali sono i poteri dell’Ente Parco? In che modo e misura i comuni partecipano alla definizione delle politiche dell’ente? Può essere l’Ente Parco l’organismo politicoistituzionale in grado di svolgere questo ruolo di “regia”? Procedere verso la costituzione di “Unioni comunali” all’interno dell’area Parco, come previsto dal decreto legge 18 agosto 2000 n.267, può favorire l’adozione di politiche di sviluppo territoriale più efficaci?
I poteri del Parco sono più limitati di quanto non si creda. Solo oggi, a distanza di quindici anni, con l’approvazione avvenuta in consiglio regionale del Piano urbanistico del Parco, esiste uno strumento urbanistico a cui i piani regolatori dei comuni devono conformarsi. Ma manca ancora il regolamento attuativo, senza il quale anche i compiti e i poteri di tutela dell’ente, restano indeterminati. Alle dipendenze funzionali del Parco c’è una unità del corpo forestale, il CTA, che conta circa 50 addetti. Non tantissimi quindi. Porzioni importanti del territorio, come la riserva Alto Tirone della Guardia sono invece “demanio” e sotto la giurisdizione del corpo forestale. Solo da qualche anno l’area del Gran Cono e anche i proventi che si ricavano dalle visite (per la maggior parte redistribuiti alle guide), sono stati trasferiti nella diretta responsabilità giuridica dell’ente. Tra gli organismi di governo dell’ente c’è “la comunità del Parco”, un organo consultivo, che tuttavia nomina 5 membri su 12 nel Consiglio direttivo, in cui siedono i rappresentanti di tutti i comuni che fanno parte del Parco e che approva il piano pluriennale economico e sociale.
Ma aldilà di ogni valutazione su quanto “pesino” i comuni all’interno degli organismi dirigenti del Parco e di quanto potere decisionale sia invece investita la figura del Presidente, di nomina ministeriale, e del consiglio direttivo, quello che qui si vuole sottolineare, è che i comuni non hanno mai ritenuto che il Parco potesse essere la loro “casa comune”, il luogo istituzionale in cui progettare, pianificare e programmare lo sviluppo dei rispettivi territori, in una visione unitaria. E’ mancata e manca tuttora negli amministratori la consapevolezza della interdipendenza che lega i destini degli uni agli altri. D’altra parte lo stesso Ente Parco avrebbe dovuto qualificarsi in questi anni come “agenzia di sviluppo”; come un “think tank” al servizio di una missione comune. Per far questo avrebbe dovuto dotarsi di professionalità di altissimo profilo in molti campi del sapere scientifico ed economico, così da porsi come interlocutore autorevole rispetto agli enti locali. Anche questo non è avvenuto. Il Parco quindi è stato vissuto dai comuni come una fonte di finanziamento occasionale, beneficiaria di finanziamenti pubblici ed europei legati a singole
progettualità, ce sono stati, di volta in volta, sistematicamente spartiti tra gli enti locali tenendo conto delle rispettive “grandezze” e non utilizzati secondo logiche e progettualità che facessero prevalere un disegno strategico sugli interessi particolari. Così come gli amministratori locali non hanno saputo o voluto vedere nell’ Ente Parco il possibile fulcro intorno al quale coordinare le politiche di sviluppo territoriale, parimenti non si è sviluppato nei nostri comuni alcun dibattito significativo sulle opportunità offerte dalla legislazione di procedere ad una integrazione, anche solo parziale, di compiti e funzioni di enti locali contigui, le cosiddette Unioni Comunali.
E’ di tutta evidenza come, all’interno dell’area Parco e anche al di fuori di essa, vi siano tutte le condizioni, e la convenienza, a procedere speditamente verso queste forme di integrazione. I campanilismi o la strenua difesa del proprio orticello elettorale, mal si conciliano con la necessità di affrontare e risolvere problemi che potrebbero essere più efficacemente affrontati e risolti se posti su una scala territoriale più ampia. All’interno dell’area Parco potrebbe nascere più di una “Unione”; questa integrazione favorirebbe a sua volta la composizione degli interessi collettivi all’interno dell’Ente Parco e finalmente la programmazione di interventi strategici nell’ottica di un approccio sistemico allo sviluppo dell’area.
Naturalmente, non si può immaginare di imprimere una inversione di tendenza a “monte”, se tutto resta come prima “a valle”, né si possono immaginare “muri divisori” che separino il Parco dalle aree più urbanizzate. Già alcuni comuni del Parco, tra i più estesi territorialmente, vivono la condizione schizofrenica di avere parte del proprio territorio nel Parco e parte al di fuori di esso. Sono le cosiddette “aree contigue”. Esse sono costituite dai centri urbani di città grandi come Ercolano e Torre del Greco, ovvero dalle aree urbanizzate dei comuni del monte Somma. Vi sono poi i centri urbani di comuni come Portici, San Giorgio, Cercola, Torre Annunziata, che pur non facendo parte del Parco, esercitano una indubbia “pressione” sulle aree a monte.
Noi crediamo che un disegno efficace di sviluppo per l’area Parco difficilmente possa immaginarsi prescindendo dal decongestionamento e da una credibile ipotesi di riconversione economica e produttiva della cinta urbana “a valle”. Occorre quindi, pur nella specificità delle singole realtà territoriali e dei rispettivi tessuti produttivi, ricercare delle linee di continuità tra lo sviluppo dei centri urbani e lo sviluppo dell’area Parco.
Certamente il turismo e il rilancio dell’artigianato costituiscono il naturale “trait d’union” tra la costa del Vesuvio e l’area a “monte”. Basti pensare all’enorme patrimonio, in gran parte inutilizzato, costituito dalle ville settecentesche del Miglio D’oro; all’area archeologica di Ercolano; alla manifattura del corallo. Non è difficile immaginare dei percorsi turistici che si snodino dalle Ville settecentesche alle Masserie; dagli scavi di Ercolano ai sentieri del Parco Vesuvio; dai laboratori dell’arte orafa alle cantine del Lacryma Christi. La riconversione, ai fini dello sviluppo turistico, dei piccoli porti di Torre del Greco e dello storico approdo borbonico del Granatello a Portici, oggi oggetto di un programma di recupero, aggiungerebbero un altro fondamentale tassello a questo quadro di rilancio. Più complessa appare la convivenza di altre attività, industriali e dei servizi, con le esigenze di una “green economy”. Il caos urbanistico e l’anarchia del costruire da una parte, la mancanza di spazio per insediare tali attività dall’altra, hanno portato ad insediamenti disordinati e ad una pressione antropica verso le aree a monte, le uniche
disponibili, andando a pregiudicare, in una ampia fascia “pedemontana”, la possibilità di uno sviluppo coerente con le finalità dell’Ente Parco. Da questa “empasse”, se ne può uscire soltanto con una difesa strenua delle aree di pregio rimaste in equilibrio ambientale, ancorché precario, ma anche con la razionalizzazione dell’esistente e la individuazione, finalmente, di aree di sviluppo industriale e dei servizi, verso le quali incentivare le imprese a delocalizzare gli impianti, decongestionando i centri urbani e i centri storici, recuperando suoli nella fascia pedemontana, restituendo vivibilità ai residenti e opportunità per lo sviluppo turistico ai centri storici, anche sul piano della ricettività alberghiera e della ospitalità diffusa.
Questi i fatti. Questa l’analisi. In una recente e contrastata trasmissione televisiva di successo, gli autori si domandavano a vicenda: resto perchè? Vado via perché? Una volta scelta la prima opzione, bisogna tuttavia che il nostro restare abbia una prospettiva, confidi di trovare una via di uscita positiva alla insopportabilità e al nichilismo della situazione odierna. Ecco, noi vogliamo lavorare alla individuazione di questa exit strategy, che è in realtà la ricerca di una strategia per restare, ovvero per cambiare profondamente in meglio i luoghi in cui viviamo.
La domanda che ci poniamo allora è: cosa possiamo fare per cambiare questo stato di cose?
La nostra ricetta è semplice, sicuramente difficile da realizzare, ma, ne siamo convinti, essa rappresenta la sola strada percorribile: solo costruendo una mobilitazione di centinaia e migliaia di persone a sostegno di un modello di sviluppo alternativo, sarà possibile condizionare i decisori politici ad agire in maniera coerente e consequenziale al raggiungimento di questi obiettivi. Solo se si creerà un fortissimo movimento di opinione, in grado di interloquire autorevolmente con la politica e con le istituzioni, le nostre richieste potranno essere accolte.
Solo se i nostri valori, i nostri principi, la nostra visione, le nostre proposte, l’idea stessa di un modello di sviluppo diverso, diventeranno sentire comune di molte più persone di quanto non lo siano oggi, sarà possibile determinare un cambiamento profondo nel nostro vivere sociale, del nostro modo di vivere e del nostro rapporto con il territorio e l’ambiente in cui viviamo.
Per questo vi chiediamo di unirvi a noi, per costituire una rete di tutti i gruppi e le associazioni attive nei comuni dell’area Parco che condividano i valori, le analisi e le proposte di questo appello. Per condividere il nostro impegno, per arricchire la nostra proposta con le vostre proposte, per moltiplicare le nostre energie, per lavorare insieme a far crescere sensibilità e mobilitazione per un futuro migliore per tutti.
CIA (confederazione italiana agricoltori) di Napoli e Caserta
Legambiente Campania
Rete dei comitati antidiscarica vesuviani
Condotta Slow Food Vesuvio
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