lunedì 13 dicembre 2010

C'è chi dice no

Giovanni Bottino è un imprenditore di Torre del Greco (Na). Un imprenditore vivace: ha un'azienda composta da un cantiere nautico e da una rimessa di barche, proprio alle pendici del Vesuvio, un'attività che rende bene. O meglio: rendeva. Perché Giovanni Bottino, lo scorso 24 marzo, ha visto in fiamme tutta la sua azienda. Colpa degli scissionisti del clan Falanga di Torre del Greco: gli hanno incendiato tutto perché Bottino è anche un uomo testardo. E si è rifiutato di pagare il pizzo.
A Natale del 2008 i fedelissimi del vecchio boss della camorra locale, Di Gioia, gli hanno chiesto 20 mila euro, 10 mila per ognuna delle due attività. Lui ha preso tempo, ma alla fine ha pagato duemila euro. Poco dopo il boss Di Gioia è stato ucciso nella faida scoppiata in paese: e anche i nuovi scissionisti del quartiere san Gennariello, a maggio sono tornati alla carica per chiedere il pizzo. Quella volta no, Bottino non c'è stato, e anzi ha denunciato gli estorsori. A novembre 2009, proprio grazie alla denuncia, i carabinieri di Torre del Greco hanno arrestato 8 membri del nuovo clan, compreso il boss degli scissionisti.
Torre però è rimasta fortino della camorra, perciò quel Bottino è diventato un simbolo troppo fastidioso, un sasso nella scarpa dei camorristi: se qualcuno avesse seguito il suo esempio? Sarebbe stato come se una palla avesse abbattuto uno per uno i birilli della paura con cui i clan regnano sui loro territori. Perciò, a marzo, è scoppiato il rogo nella Barracuda Marine di Bottino: due milioni di euro di danni, ecco cosa significa la camorra. Ma Bottino non si è piegato nemmeno stavolta. Ecco cosa significa essere meridionali. Testardo, Bottino è potuto rimanere perché non è mai rimasto solo. E tra chi gli è stato accanto, va ricordata l'associazione antiracket campana, che lo ha sostenuto, fino alla riapertura dell'azienda, la Barracuda Marine, in tempi record: oggi pomeriggio è stata ri-inaugurata.
L'attività è ripresa alacramente: e accanto a Bottino oggi ci sono anche altri imprenditori che hanno denunciato. Otto di loro lo scorso novembre si sono alleati in un'associazione sul loro territorio, Castel Volturno, il cuore del potere dei casalesi. Racket è una parola che può suonare estranea a chi vive lontano dai fortini della criminalità, anche se in realtà molte indagini degli ultimi anni rivelano che il fenomeno delle estorsioni è presente nel nord Italia. Il pizzo – una tassa che le mafie pretendono sul loro territorio, per lasciare esercitare le attività legali, commerciali o imprenditoriali – può consistere in poche centinaia o in diverse migliaia di euro; non importa la consistenza, è il simbolo dell'economia sana del paese che si piega alle mafie. Perciò, «non si tratta di un costo ecomico. Rappresenta la rinuncia ad essere davvero imprenditori. Cioè la rinuncia a costruire, a rischiare, a investire», per dirla con le parole di Tano Grasso, presidente della Federazione delle associazioni antiracket italiane. «Di recente - continua - ho partecipato a una riunione con dei commercianti siciliani. Molti di loro avrebbero potuto allargare le proprie atttvità in tutta la regione ma non l'hanno fatto dicendo: "Chi ce lo fa fare? Più ci allarghiamo, più problemi avremmo"». Cosa significa nei fatti il pizzo? Come vive l'economia del meridione, laddove ne è più vittima? Ci sono davvero dei passi avanti, o i casi come quelli di Bottino sono rari come mosche bianche? Tempi da oggi inizia un viaggio nel nostro Paese per scoprirlo.
È certo che oggi, a differenza del passato, gli imprenditori possono contare su maggiori strumenti per ribellarsi. Non tutti lo sanno, ma lo Stato stanzia dei fondi per sostenere chi subisce danni perché si rifiuta di pagare il pizzo. Parallelamente alla denuncia, si può presentare la richiesta di risarcimento danni (complessivi o fino al 70 per cento) in prefettura. Gli unici requisiti richiesti all'imprenditore (ovviamente oltre al fatto che non abbia pagato, o abbia smesso di pagare il pizzo) è la presentazione della domanda entro 120 giorni dalla denuncia. Dopo che il prefetto acquisisce tutti gli elementi che confermino l'esistenza del reato, la richiesta viene da lui inoltrata al Comitato di solidarietà per le vittime che valuta e decide. Negli ultimi due anni lo sforzo del Governo è stato quello di abbattere il più possibile i tempi, tra il danno e l'erogazione dei fondi: oggi si è arrivati ad un intervallo di un mese e mezzo. Su 308 richieste presentate nel 2007 ne sono state accolte 161 per complessivi 16 milioni 572 mila euro; l'anno successivo, sulle 334 richieste presentate, ne sono state accolte 151 per 18 milioni e 253 mila euro; nel 2009 sono state 166 le richieste accolte (su 358), per 16 milioni e 593 mila euro. Questo 2010 segna il record per le richieste accettate: solo nei primi nove mesi ne sono state accolte 107 (su 147) per 10 milioni e 732 mila euro.

di Chiara Rizzo

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