Massimo Giannini, vice-direttore di Repubblica, ha dedicato il suo editoriale del 17 gennaio sul dorso Affari&finanza ai referendum, invitando i lettori a votare no ai referendum. Non condividendo le tesi espresse, Altreconomia gli ha scritto una lettera.
Gentile Massimo Giannini,
mi chiamo Luca Martinelli e sono un giornalista, redattore della rivista Altreconomia.
Ho letto con attenzione il suo editoriale in merito ai referendum (“Liberali che scrivono sull'acqua”), pubblicato sul dorso Affari&finanza del giorno 17 gennaio 2010. Lei è il vice-direttore de la Repubblica, e perciò non posso che interpretare il suo articolo come l'espressione di una ferma contrarietà del vostro quotidiano rispetto ai due quesiti referendari in merito al servizio idrico integrato promosso dal “Comitato referendario 2 sì per l'acqua pubblica”.
Allo stesso modo, Altreconomia, la rivista per cui lavoro, ha scelto di partecipare attivamente alla campagna referendaria, e io risulto tra i 43 firmatari dei quesiti referendari depositati nel marzo del 2010 presso la Corte di Cassazione.
Fatte le dovute presentazioni, veniamo al motivo della mia lettera. È palese che un articolo “di opinione”, com'è necessariamente un editoriale compresso nello spazio esiguo di 2mila battute, non possa contenere né rimandare ad approfondimenti. Vorrei però aprire un dialogo e un confronto franco con il giornalista Massimo Giannini, di cui leggo con attenzione le cronache di osservatore attento e fine analista delle dinamiche del sistema economico del nostro Paese. Sono, di solito, articoli ben documentati. Le cui affermazioni si ancorano a dati di fatto. Questa lettera è così un invito ad approfondire, con la stessa dovizia, anche i temi relativi al servizio idrico integrato.
Parto dalle affermazioni contenute nel suo editoriale. Lei scrive “c'è una realtà pratica, che vuole l’acqua pubblica mal gestita, se è vero che sulla rete idrica nazionale si disperde quasi il 50% della risorsa complessiva”.
Prima di rispondere, dovremmo porci una domanda: è, davvero, la riduzione degli sprechi uno degli obiettivi perseguiti dai gestori del servizio idrico integrato negli ultimi sedici anni, da quando con la legge Galli (l. 36/1994) venne attuata l'ultima importante riforma nel settore? Probabilmente, la risposta a questa domanda è no. L'amministratore delegato di una delle più importanti aziende del settore me l'ha confermato in un'intervista, spiegandomi che la riduzione degli sprechi non è nemmeno un tema “dibattuto” all'interno dei consigli di Federutility, dove nessuno si gloria di aver “tappato i buchi”. Le parole sono “confermate” dai dati del rapporto del centro studi Mediobanca sulle società controllate dai maggiori Comuni italiani, che certifica -e a noi pare significativo- che il peggior acquedotto d'Italia, in termini di perdite di rete, sia quello romano. Mediobanca, e non il Comitato referendario, s'è preso la briga di misurare le perdite di rete (ovviamente a partire da dati forniti dalle aziende) facendo un rapporto non solo tra “litri immessi in rete e non fatturati” e “popolazione servita”, ma inserendo anche la variabile “lunghezza della rete”. Una variabile significativa, che aiuta a scalfire l'immagine dell'Acquedotto pugliese (spa 100% pubblica), il più lungo d'Europa, come colabrodo d'Italia. Lo stesso rapporto, viceversa, segnala che i migliori acquedotto italiani sono quelli di Milano e provincia, gestite da Metropolitana Milanese (100% del Comune di Milano) e da Amiacque (100% pubblica).
E a Roma? A Roma c'è Acea, che probabilmente ritiene strategico e prioritario allargare il proprio mercato piuttosto che tappare i buchi nell'acquedotto della capitale. Non si spiegherebbe altrimenti una strategia che ha portato la società a “partecipare” attivamente (direttamente o attraverso società controllate) nella gestione del servizio idrico integrato in una dozzina almeno di Ambiti territoriali ottimali, dalla Toscana alla Campania, passando per l'Umbria e -ovviamente- il Lazio.
Un altro falso mito che varrebbe la pena approfondire è quello relativo alla dicotomia tra “privatizzazione” e “liberalizzazione”. E l'insegnamento ci arriva sempre da Acea, e dalla lettura di un interessante sentenza con cui nel 2007 l'Autorità garante per la concorrenza e il mercato ha multato la ex municipalizzata romana e la francese Suez (secondo azionista privato di Acea, oggi, dietro Caltagirone, ma il primo al tempo) per un accordo di cartello (una sorta di “patto di non belligeranza”) nell'ambito del quale le due aziende avrebbero sostanzialmente eliminato la concorrenza in buona parte della gare del servizio idrico integrato che si sono svolte in Italia dal 2002 all'avvio dell'indagine Antitrust (la sentenza cui faccio riferimento è reperibile, integralmente, sul sito agcm.it, ed è una lettura istruttiva).
Le chiedo di aiutarmi a capire a che tipo di liberalizzazione facciamo riferimento quando, trattandosi dell'affidamento di un servizio di rete, ovvero di mera concorrenza “per il” mercato e non “nel” mercato, si ha la certezza che la gara sia truccata.
Da quest'analisi discende una considerazione amara, però: da un affidamento non si torna indietro. Nonostante la ricca documentazione che accompagna la sentenza dell'Antitrust (che pure non ha sollevato l'indignazione della politica), Acea e Suez continuano a gestire a braccetto, e lo faranno almeno per i prossimi vent'anni, gli acquedotti di mezza Toscana.
Ecco: la legge Fitto-Ronchi, che lei saluta come “l’unica, parziale apertura al mercato compiuta da una maggioranza di falsi liberisti”, non tocca assolutamente il nodo del “come si svolgono le gare”. E questo è preoccupante, almeno per me.
Lei scrive che con il referendum si bloccheranno anche “le privatizzazioni e le liberalizzazioni anche di bus, metropolitane, raccolta dei rifiuti, impianti di depurazione e reti fognarie”. Tralasciando che impianti di depurazione e reti fognarie sono parte del servizio idrico integrato, e quindi oggetto di tutta la comunicazione del Comitato referendario, oltre che non gestibili separatamente dalla rete acquedottistica, la invito a riflettere sull'eventualità di una privatizzazione anche degli altri servizi che ricadono nell'ambito della legge Fitto-Ronchi.
E lo faccio a partire dalla prima gara per “affidare” un servizio, quello di trasporto pubblico locale, ex articolo 15 della legge 166/2009. Si sta svolgendo a Torino. La invito intanto a leggere il parere sul bando di gara emesso da un'Agenzia per i servizi pubblici locali del Comune di Torino, che palesa alcune problematicità: mancata previsione della prestazione oggetto del bando (in termini di chilometri di servizio, e numero di passeggeri trasportabili); mancata previsione di eventuali sanzioni per il gestore inadempiente; eliminazione di ogni forma di controllo sul servizio (accesso ai documenti del gestore) da parte del consiglio comunale. L'Agenzia, poi, contesta nel parere che la gara sembra scritta come una “camicia su misura” per un soggetto, Gtt, che già era gestore della rete. Non pare strano, così, che l'unica offerta pervenuta sia quella di Gtt, una società controllata al 100 per cento dal Comune di Torino.
Non interessa, qui, se ciò apra o meno la strada alla privatizzazione di Gtt. Quel che è certo è che si sono “privatizzati” i rapporti tra un Comune e l'azienda che gestisce un servizio fondamentale per il cittadino, se aiutare il Paese ad uscire dalla “schiavitù dell'automobile”, quale il trasporto pubblico locale.
Siamo senz'altro d'accordo su un aspetto: l'esempio dell'Atac, che lei indica come espressione dei rischi di un ritorno al pubblico “statalista” (ma le ricordo che Atac è una società per azioni, e pertanto una società di natura privatistica), manifesta anche a mio avviso la totale inadeguatezza e incompetenza della classe politica che sta gestendo il nostro Paese.
Basti pensare che, invece di rimetter mano alla legge Galli, cercando così di risolvere i problemi più macroscopici che sedici anni di operatività della riforma del servizio idrico hanno palesato, il governo in carica, peraltro espressione della stessa maggioranza che ha eletto a Roma la giunta Alemanno, ha presentato come “riforma” (e non solo del servizio idrico, di tutti i servizi pubblici locali) un decreto che tocca solo l'aspetto (senz'altro marginale, da un punto di vista operativo e gestionale) della modalità di affidamento del servizio, limitando la possibilità per gli enti locali di fornire lo stesso in economia o attraverso società interamente controllate (in house).
Per ultimo, vorrei segnalarle la vicenda di F2i, il fondo della sgr che vede Vito Gamberale come amministratore delegato e che investito nel servizio idrico integrato diventando azionista di Mediterraneo delle acque. Mi colpisce che i Comuni di Torino, Genova, Parma, Piacenza e Reggio Emili e molti piccoli comuni emiliani siano soci di un soggetto (detengono l'altro 60 per cento di Mediterranea delle acque) ma non possono (o potrebbero) spiegare ai propri cittadini chi ha fornito i capitali a questo soggetto diventato loro partner?
I nomi dei “Limited Partners” che hanno sottoscritto oltre 900 milioni di euro in F2i, circa la metà del fondo, non sono noti. È possibile che gli enti locali accettino una situazione del genere? È accettabile che questi soggetti sconosciuti siano, attraverso la società Mediterranea delle acque, titolari del servizio idrico integrato nella provincia di Genova?
Mi permetta, prima di salutarla, una notazione: se davvero l'acqua e tutti gli altri servizi fossero, per natura, “a rilevanza economica”, la Corte Costituzionale avrebbe rigettato il primo quesito referendario. La realtà è, però, diversa. E chi ha preso in giro l'Italia e gli italiani è palesemente il governo, con l'oramai ex ministro Ronchi che ha inserito l'articolo 15 in una norma che, nel titolo, recita: “Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Il secondo quesito referendario che i cittadini italiani saranno chiamati a votare, invece, pone l'accento sulla tariffa del servizio idrico integrato. E spaventa perché scopre un nodo irrisolto, mai dibattuto con la dovuta cura sui media. Quali sono le modalità di finanziamento del servizio idrico integrato? Possibile che debba essere lasciato totalmente al mercato, e alle tasche dei cittadini? Anche Federutility concorda, ormai, con l'impostazione del Forum italiano dei movimenti per l'acqua: il modello full recovery cost non funziona; gli ultimi sedici anni hanno palesato una riduzione assoluta degli investimenti sulla rete, e -in termini relativi- il Comitato di vigilanza sulla risorse idriche presso il ministero dell'Ambiente certifica che poco più della metà degli investimenti programmati sono stati effettivamente realizzati. Che fare di fronte a questa situazione? Federutility chiede finanziamenti pubblici a fondo perduto a favore dei gestori privati del servizio. Il Comitato promotore chiede invece di riflettere seriamente sul modello e sulla composizione della tariffa; invita a ridiscutere l'esigenza di una finanza pubblica, ruolo cui la Cassa depositi e prestiti para aver abdicato.
Gentile Massimo Giannini,
mi chiamo Luca Martinelli e sono un giornalista, redattore della rivista Altreconomia.
Ho letto con attenzione il suo editoriale in merito ai referendum (“Liberali che scrivono sull'acqua”), pubblicato sul dorso Affari&finanza del giorno 17 gennaio 2010. Lei è il vice-direttore de la Repubblica, e perciò non posso che interpretare il suo articolo come l'espressione di una ferma contrarietà del vostro quotidiano rispetto ai due quesiti referendari in merito al servizio idrico integrato promosso dal “Comitato referendario 2 sì per l'acqua pubblica”.
Allo stesso modo, Altreconomia, la rivista per cui lavoro, ha scelto di partecipare attivamente alla campagna referendaria, e io risulto tra i 43 firmatari dei quesiti referendari depositati nel marzo del 2010 presso la Corte di Cassazione.
Fatte le dovute presentazioni, veniamo al motivo della mia lettera. È palese che un articolo “di opinione”, com'è necessariamente un editoriale compresso nello spazio esiguo di 2mila battute, non possa contenere né rimandare ad approfondimenti. Vorrei però aprire un dialogo e un confronto franco con il giornalista Massimo Giannini, di cui leggo con attenzione le cronache di osservatore attento e fine analista delle dinamiche del sistema economico del nostro Paese. Sono, di solito, articoli ben documentati. Le cui affermazioni si ancorano a dati di fatto. Questa lettera è così un invito ad approfondire, con la stessa dovizia, anche i temi relativi al servizio idrico integrato.
Parto dalle affermazioni contenute nel suo editoriale. Lei scrive “c'è una realtà pratica, che vuole l’acqua pubblica mal gestita, se è vero che sulla rete idrica nazionale si disperde quasi il 50% della risorsa complessiva”.
Prima di rispondere, dovremmo porci una domanda: è, davvero, la riduzione degli sprechi uno degli obiettivi perseguiti dai gestori del servizio idrico integrato negli ultimi sedici anni, da quando con la legge Galli (l. 36/1994) venne attuata l'ultima importante riforma nel settore? Probabilmente, la risposta a questa domanda è no. L'amministratore delegato di una delle più importanti aziende del settore me l'ha confermato in un'intervista, spiegandomi che la riduzione degli sprechi non è nemmeno un tema “dibattuto” all'interno dei consigli di Federutility, dove nessuno si gloria di aver “tappato i buchi”. Le parole sono “confermate” dai dati del rapporto del centro studi Mediobanca sulle società controllate dai maggiori Comuni italiani, che certifica -e a noi pare significativo- che il peggior acquedotto d'Italia, in termini di perdite di rete, sia quello romano. Mediobanca, e non il Comitato referendario, s'è preso la briga di misurare le perdite di rete (ovviamente a partire da dati forniti dalle aziende) facendo un rapporto non solo tra “litri immessi in rete e non fatturati” e “popolazione servita”, ma inserendo anche la variabile “lunghezza della rete”. Una variabile significativa, che aiuta a scalfire l'immagine dell'Acquedotto pugliese (spa 100% pubblica), il più lungo d'Europa, come colabrodo d'Italia. Lo stesso rapporto, viceversa, segnala che i migliori acquedotto italiani sono quelli di Milano e provincia, gestite da Metropolitana Milanese (100% del Comune di Milano) e da Amiacque (100% pubblica).
E a Roma? A Roma c'è Acea, che probabilmente ritiene strategico e prioritario allargare il proprio mercato piuttosto che tappare i buchi nell'acquedotto della capitale. Non si spiegherebbe altrimenti una strategia che ha portato la società a “partecipare” attivamente (direttamente o attraverso società controllate) nella gestione del servizio idrico integrato in una dozzina almeno di Ambiti territoriali ottimali, dalla Toscana alla Campania, passando per l'Umbria e -ovviamente- il Lazio.
Un altro falso mito che varrebbe la pena approfondire è quello relativo alla dicotomia tra “privatizzazione” e “liberalizzazione”. E l'insegnamento ci arriva sempre da Acea, e dalla lettura di un interessante sentenza con cui nel 2007 l'Autorità garante per la concorrenza e il mercato ha multato la ex municipalizzata romana e la francese Suez (secondo azionista privato di Acea, oggi, dietro Caltagirone, ma il primo al tempo) per un accordo di cartello (una sorta di “patto di non belligeranza”) nell'ambito del quale le due aziende avrebbero sostanzialmente eliminato la concorrenza in buona parte della gare del servizio idrico integrato che si sono svolte in Italia dal 2002 all'avvio dell'indagine Antitrust (la sentenza cui faccio riferimento è reperibile, integralmente, sul sito agcm.it, ed è una lettura istruttiva).
Le chiedo di aiutarmi a capire a che tipo di liberalizzazione facciamo riferimento quando, trattandosi dell'affidamento di un servizio di rete, ovvero di mera concorrenza “per il” mercato e non “nel” mercato, si ha la certezza che la gara sia truccata.
Da quest'analisi discende una considerazione amara, però: da un affidamento non si torna indietro. Nonostante la ricca documentazione che accompagna la sentenza dell'Antitrust (che pure non ha sollevato l'indignazione della politica), Acea e Suez continuano a gestire a braccetto, e lo faranno almeno per i prossimi vent'anni, gli acquedotti di mezza Toscana.
Ecco: la legge Fitto-Ronchi, che lei saluta come “l’unica, parziale apertura al mercato compiuta da una maggioranza di falsi liberisti”, non tocca assolutamente il nodo del “come si svolgono le gare”. E questo è preoccupante, almeno per me.
Lei scrive che con il referendum si bloccheranno anche “le privatizzazioni e le liberalizzazioni anche di bus, metropolitane, raccolta dei rifiuti, impianti di depurazione e reti fognarie”. Tralasciando che impianti di depurazione e reti fognarie sono parte del servizio idrico integrato, e quindi oggetto di tutta la comunicazione del Comitato referendario, oltre che non gestibili separatamente dalla rete acquedottistica, la invito a riflettere sull'eventualità di una privatizzazione anche degli altri servizi che ricadono nell'ambito della legge Fitto-Ronchi.
E lo faccio a partire dalla prima gara per “affidare” un servizio, quello di trasporto pubblico locale, ex articolo 15 della legge 166/2009. Si sta svolgendo a Torino. La invito intanto a leggere il parere sul bando di gara emesso da un'Agenzia per i servizi pubblici locali del Comune di Torino, che palesa alcune problematicità: mancata previsione della prestazione oggetto del bando (in termini di chilometri di servizio, e numero di passeggeri trasportabili); mancata previsione di eventuali sanzioni per il gestore inadempiente; eliminazione di ogni forma di controllo sul servizio (accesso ai documenti del gestore) da parte del consiglio comunale. L'Agenzia, poi, contesta nel parere che la gara sembra scritta come una “camicia su misura” per un soggetto, Gtt, che già era gestore della rete. Non pare strano, così, che l'unica offerta pervenuta sia quella di Gtt, una società controllata al 100 per cento dal Comune di Torino.
Non interessa, qui, se ciò apra o meno la strada alla privatizzazione di Gtt. Quel che è certo è che si sono “privatizzati” i rapporti tra un Comune e l'azienda che gestisce un servizio fondamentale per il cittadino, se aiutare il Paese ad uscire dalla “schiavitù dell'automobile”, quale il trasporto pubblico locale.
Siamo senz'altro d'accordo su un aspetto: l'esempio dell'Atac, che lei indica come espressione dei rischi di un ritorno al pubblico “statalista” (ma le ricordo che Atac è una società per azioni, e pertanto una società di natura privatistica), manifesta anche a mio avviso la totale inadeguatezza e incompetenza della classe politica che sta gestendo il nostro Paese.
Basti pensare che, invece di rimetter mano alla legge Galli, cercando così di risolvere i problemi più macroscopici che sedici anni di operatività della riforma del servizio idrico hanno palesato, il governo in carica, peraltro espressione della stessa maggioranza che ha eletto a Roma la giunta Alemanno, ha presentato come “riforma” (e non solo del servizio idrico, di tutti i servizi pubblici locali) un decreto che tocca solo l'aspetto (senz'altro marginale, da un punto di vista operativo e gestionale) della modalità di affidamento del servizio, limitando la possibilità per gli enti locali di fornire lo stesso in economia o attraverso società interamente controllate (in house).
Per ultimo, vorrei segnalarle la vicenda di F2i, il fondo della sgr che vede Vito Gamberale come amministratore delegato e che investito nel servizio idrico integrato diventando azionista di Mediterraneo delle acque. Mi colpisce che i Comuni di Torino, Genova, Parma, Piacenza e Reggio Emili e molti piccoli comuni emiliani siano soci di un soggetto (detengono l'altro 60 per cento di Mediterranea delle acque) ma non possono (o potrebbero) spiegare ai propri cittadini chi ha fornito i capitali a questo soggetto diventato loro partner?
I nomi dei “Limited Partners” che hanno sottoscritto oltre 900 milioni di euro in F2i, circa la metà del fondo, non sono noti. È possibile che gli enti locali accettino una situazione del genere? È accettabile che questi soggetti sconosciuti siano, attraverso la società Mediterranea delle acque, titolari del servizio idrico integrato nella provincia di Genova?
Mi permetta, prima di salutarla, una notazione: se davvero l'acqua e tutti gli altri servizi fossero, per natura, “a rilevanza economica”, la Corte Costituzionale avrebbe rigettato il primo quesito referendario. La realtà è, però, diversa. E chi ha preso in giro l'Italia e gli italiani è palesemente il governo, con l'oramai ex ministro Ronchi che ha inserito l'articolo 15 in una norma che, nel titolo, recita: “Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Il secondo quesito referendario che i cittadini italiani saranno chiamati a votare, invece, pone l'accento sulla tariffa del servizio idrico integrato. E spaventa perché scopre un nodo irrisolto, mai dibattuto con la dovuta cura sui media. Quali sono le modalità di finanziamento del servizio idrico integrato? Possibile che debba essere lasciato totalmente al mercato, e alle tasche dei cittadini? Anche Federutility concorda, ormai, con l'impostazione del Forum italiano dei movimenti per l'acqua: il modello full recovery cost non funziona; gli ultimi sedici anni hanno palesato una riduzione assoluta degli investimenti sulla rete, e -in termini relativi- il Comitato di vigilanza sulla risorse idriche presso il ministero dell'Ambiente certifica che poco più della metà degli investimenti programmati sono stati effettivamente realizzati. Che fare di fronte a questa situazione? Federutility chiede finanziamenti pubblici a fondo perduto a favore dei gestori privati del servizio. Il Comitato promotore chiede invece di riflettere seriamente sul modello e sulla composizione della tariffa; invita a ridiscutere l'esigenza di una finanza pubblica, ruolo cui la Cassa depositi e prestiti para aver abdicato.
Cordialmente,
Luca Martinelli
luca@altreconomia.it
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