martedì 30 agosto 2011

Tanzania: l’uranio che sconvolge la vita

Le multinazionali minerarie sperano di estrarre milioni di tonnellate di uranio dal bacino di Bahi, in Tanzania. Il governo ha dato il via libera, ma gli abitanti della regione sanno quali sono i rischi e protestano.

La lunga strada dritta attraversa la pianura ampia e brulla. Questa non è la Tanzania dei turisti con la cima innevata del Kilimangiaro e le colline verdi: siamo nel centro del paese, in una regione calda, arida e povera. Le rocce creano forme strane e solo i cactus danno un tocco di verde. Qua e là spunta un albero del fuoco, una fiamma che spicca sullo sfondo marrone.

Dalla strada asfaltata si dirama una pista di sabbia. Da ocra, il colore della terra diventa grigio cemento. Gli occhi di un europeo vedono solo siccità e miseria: non è un posto dove vivere né dove fermarsi per una sosta. Ma quelli che abitano queste terre lottano proprio per restare. Il futuro della loro terra è minacciato da una parola che qui, fino a poco tempo fa, nessuno conosceva: “uranio”, un termine che in swahili non esiste nemmeno.

Due aziende australiane pronte per l’estrazione

L’imponente bacino di Bahi nasconde 14 milioni di tonnellate di uranio. Due aziende australiane, Mantra Resources e Uranex, vogliono cominciare presto a estrarlo, qui e nel sud del paese. Dietro a Mantra Resources c’è il colosso minerario anglo-australiano Rio Tinto, uno dei più grandi del mondo. Tra la polvere dei paesi dell’Africa orientale si vedono le conseguenze di decisioni prese a migliaia di chilometri di distanza. La prospettiva di un ritorno all’energia nucleare ha fatto aumentare la domanda mondiale di uranio, il cui prezzo è salito alle stelle.

Ogni tanto si vedono passare pecore, capre e mandrie di mucche magre. La terra è grigia e piatta, ma durante la stagione delle piogge crescerà il riso, che viene coltivato su molti ettari. Quando piove, il bacino si riempie, forma corsi d’acqua sotterranei e di superficie che sfociano nel lago di Bahi, così ricco di pesci che sulle sue rive sono nati dei villaggi. La regione, che nel periodo di siccità sembra morta, dà da vivere a molte persone, non solo a quelle che ci abitano.

Nella zona del bacino di Bahi si scontreranno presto due modelli di sviluppo: l’agricoltura di sussistenza dei contadini e l’industria mineraria, a cui servono le risorse della terra, e non la gente del posto. Nel villaggio di Makulu le case sono fatte di pali e di terra grigia. Gaitan Iniyasi Iputu è un coltivatore di riso magro, alto ed energico, che vive con la famiglia composta da 42 persone. Iputu sa che sono tutti in pericolo. “Non riesco a pensare ad altro”, confessa.

La gente non si fida del governo

Quattro edifici delimitano un cortile con al centro un recinto per il bestiame. Iputu ha dieci figli e, come ci tiene a sottolineare, “solo una moglie: sono cattolico!”. Nel primo edificio si trova la sala per ricevere gli ospiti e nella penombra si vedono brillare gli occhi di tre vitelli neri. Alcuni polli beccano il grano vicino a delle panche di legno consumato. Una casa solida, almeno per il momento.

Un giorno è arrivato il vice-ministro per l’industria mineraria, racconta Iputu. Non ricorda come si chiama ma non ha dimenticato il succo del suo discorso: quando sarà il momento, lui e la sua famiglia dovranno andarsene. “Spero che il governo ci indicherà dove. Ma perché mai hanno portato qui quelle persone?”. Iputu può solo sperare nell’aiuto del governo, di cui non si fida. Dell’uranio sa solo che serve per “l’elettricità e le armi”, per il resto ha le idee confuse. Ci sono gli Stati Uniti dietro a questi affari? Una volta George W. Bush è venuto in visita in Tanzania, spiega. Dev’esserci per forza un collegamento.

A Bahi, il villaggio più grande della zona, alcuni giovani contadini s’incontrano davanti al punto di raccolta del riso. È mezzogiorno, il sole è cocente e i sacchi di riso bianchi riflettono la luce. Un ragazzo di circa trent’anni ha ascoltato alla radio il dibattito parlamentare sull’uranio. Ne è venuto a conoscenza in questo modo, anche se la questione lo riguarda da vicino. È molto arrabbiato e se la prende con i pedali della bicicletta.

Per gli abitanti del luogo la parola “uranio” è difficile da pronunciare perché nella loro lingua non esiste la “r”. Così usano altri termini: il progetto, la cosa, i minerali. Ancora più difficile è farsi un’idea del disastro ambientale causato dall’estrazione dell’uranio. La concentrazione di minerale nella roccia è molto bassa perciò bisogna smuovere immense quantità di materiale, che vanno a formare delle grandi discariche di polveri radioattive.

In seguito, il minerale è sottoposto a un trattamento di lisciviazione per estrarre l’ossido metallico e durante questo processo si accumulano grandi quantità di rifiuti tossici. Dopo l’estrazione dell’uranio, rimangono nell’area i prodotti del decadimento dell’uranio, che sono radioattivi.

Il processo decisionale non può ecludere la popolazione locale

Spinto dalla curiosità e dalla paura, Anthony Lyamunda si è informato sull’argomento. Lui ha studiato ingegneria e ora cerca di informare gli altri abitanti. Per questo dirige Cesope, un’organizzazione cristiana il cui nome sta per “l’educazione civica è la soluzione alla povertà e ai problemi ambientali”. Lyamunda ne è profondamente convinto: “Le persone che vivono in questa regione devono poter decidere il loro futuro sulla base di informazioni chiare, partecipando a un processo decisionale trasparente e corretto”. Peccato che le autorità non abbiano alcun interesse a farlo.

Il giovane ingegnere sa bene quali sono state le conseguenze dell’estrazione di uranio negli altri paesi africani. Lyamunda è stato in Namibia, dove si trova la miniera a cielo aperto di uranio più grande del mondo. La miniera Rössing - dietro la quale c’è sempre la multinazionale Rio Tinto - è attiva da trent’anni ma il paese non ha ancora una legge per la protezione dalle radiazioni.

Duecentocinquanta milioni di tonnellate di rifiuti tossici vengono smaltiti in quello che un tempo era il letto di un fiume. Lyamunda sa anche che in Niger l’estrazione di uranio è in mano all’azienda pubblica francese Areva, che gestisce anche un ospedale locale da dove non è mai uscita una diagnosi di cancro ai polmoni.

Lyamunda si è ritrovato catapultato in questo mondo perché è nato nella regione di Bahi. E a poco a poco ha scoperto quanto sono potenti i suoi avversari. Ma scrolla le spalle: non è uno che parla volentieri delle sue paure.

Anche i capi religiosi vogliono dire la loro

Seminari, riunioni, conferenze: le ong cercano in tutti i modi di far sentire le proteste dei contadini. Tre anni fa, un primo comitato formato dagli abitanti della regione di Bahi si è rivolto al governo per chiedere di interrompere le esplorazioni dei siti per l’estrazione di uranio. Nella capitale quest’appello ha ricevuto l’appoggio dei capi di diversi gruppi religiosi: musulmani, cattolici, mennoniti, anglicani, avventisti del settimo giorno.

Ramadhani Issa, l’imam di Bahi, ha partecipato alle proteste fin dal primo giorno. Con il suo copricapo rosso, è seduto sotto un quadro della Sacra famiglia nella scuola della missione cattolica con alcune centinaia di altre persone. L’uranio unisce tutti, cristiani e musulmani, nonostante in Tanzania siano frequenti le tensioni tra i due gruppi religiosi. L’imam ha cinquant’anni, è robusto, sicuro di sé, ama scherzare e cerca spesso la complicità degli altri.

È più istruito rispetto alla media degli abitanti del villaggio e quando la comunità si riunisce ne approfitta per parlare dell’uranio. Ramadhani racconta con tono sprezzante che un giorno ha chiesto spiegazioni ai rappresentanti delle aziende minerarie impegnati in alcune trivellazioni. Gli hanno risposto che stavano solo verificando la qualità del terreno. “Alcune persone sperano di ottenere un risarcimento”, aggiunge. “Ma sono degli illusi. Mi fanno pena”.

Come succede in altri paesi africani, gli agricoltori della Tanzania non hanno un documento di proprietà delle loro terre. Secondo il diritto consuetudinario, se qualcuno coltiva un campo per molti anni ne diventa il proprietario, ma queste usanze non contano nulla agli occhi degli investitori stranieri che hanno ricevuto il via libera dal governo.

Contratti minerari svantaggiosi per il paese

La Tanzania è un paese ricco di risorse ma i contratti statali con le aziende straniere favoriscono nettamente gli investitori. Lo stesso vale per l’industria aurifera. Nel 2009 la Tanzania ha esportato oro per un valore di 1,2 miliardi di dollari ma al paese è rimasto ben poco, afferma il giudice ed ex Attorney General Mark Bomani.

Infatti si applicano ancora le condizioni negoziate da governo e imprenditori negli anni novanta, quando l’oro costava un quinto rispetto a oggi. Inoltre le compagnie che sfruttano i giacimenti d’oro (si tratta soprattutto di aziende canadesi), operano in un clima d’impunità, come denuncia un rapporto redatto da alcune organizzazioni cristiane e musulmane. E i minatori che osano rivendicare i loro diritti vengono licenziati in massa.

“Come può succedere che qualcuno arrivi, si porti via tutte le ricchezze del paese e lasci alla gente del posto solo giganteschi crateri nella roccia e risarcimenti ridicoli?”, protesta un giornalista del quotidiano The Citizen. “Dov’è il governo di questo paese? Di cos’ha paura? Il popolo della Tanzania non conta niente?”.

Da decenni il governo è in mano allo stesso partito, Chama Cha Mapinduzi (Ccm, partito della rivoluzione), che un tempo era l’unico. Secondo alcuni esperti di economia tanzaniani, al Ccm mancano la volontà e le competenze per modificare le leggi che regolano l’industria mineraria. Nel Revenue watch index - l’indice che valuta la trasparenza dei governi riguardo alle entrate derivanti dalle risorse naturali - la Tanzania non è certo ai primi posti.

Le aziende minerarie hanno il coltello dalla parte del manico

Le aziende che estraggono l’uranio approfittano di questa situazione. La stampa filogovernativa dà risalto ai loro comunicati: la Tanzania sarà il terzo produttore africano di uranio, l’ottavo a livello mondiale. I mezzi d’informazione indipendenti, invece, sono più critici. Il paese ha bisogno di un comitato di controllo che non si sottometta alle aziende straniere, denuncia The Guardian: “Le autorità dovrebbero sapere che quando si verrà a conoscenza di casi di decessi legati all’uranio, le aziende responsabili diranno che mancano le prove.”

L’uranio e i diritti civili: è nato un nuovo modo di pensare in Africa. Siamo ancora agli inizi ma le persone cominciano a organizzarsi. In Malawi il ruolo dell’esperto tanzaniano Lyamunda viene svolto da un giovane avvocato che dirige il movimento Citizen for justice. In Namibia lo fa la direttrice di un istituto per la tutela delle condizioni di lavoro.

La sua indagine sui minatori di Rössing, tra cui sono state riscontrate delle “malattie inspiegabili”, è risultata molto scomoda alla lobby dell’uranio. I nigerini che vivono negli Stati Uniti hanno intentato una class action contro il gruppo francese Areva e chiedono indennizzi per miliardi di euro.

Ilindi è l’ultima tappa del viaggio nella terra dell’uranio. È un paesino di settemila abitanti che vivono in piccoli agglomerati di case e cortili. A Ilindi il conflitto dura ormai da tempo. L’area destinata a ospitare la miniera è talmente a ridosso del paese che gli abitanti sono convinti di avere voce in capitolo. Tra l’altro in Tanzania c’è una legge che richiede il consenso degli abitanti per decisioni di questo tipo.

Vedendo arrivare una giornalista, gli uomini del villaggio si scaldano: perché non ha organizzato una riunione? Si forma subito un gruppetto di persone che discutono animatamente. Le interviste si fanno solo pubblicamente e in nome di tutta la comunità. Perché non si sa mai che qualcuno scriva che Ilindi è a favore della miniera. L’atmosfera è tesa, le persone sono diffidenti.

È sabato pomeriggio e Mwanahamisi Kibwana, un’impiegata del comune, sta stirando con un ferro pesantissimo che mette a scaldare su un braciere. La radio trasmette musica a tutto volume. Kibwana, avvolta in un abito batik, sposta il suo corpo robusto su una sedia, con voce energica copre il vocio della radio e racconta entusiasta le vicissitudini di Ilindi.

Il dibattito è ancora aperto

“Le aziende si sono fatte rilasciare solo l’autorizzazione del governo senza interpellarci. C’è stata una prima riunione in paese e, in cambio del consenso per la miniera, abbiamo chiesto contributi per la costruzione di una scuola e di una strada”. A quel punto il capo di un’azienda australiana è andato di persona a Ilindi. Altra riunione. Lui non ha fatto promesse, però ha detto che se gli abitanti avessero acconsentito alla costruzione della miniera, ne avrebbero sicuramente tratto dei vantaggi.

In seguito sono arrivati due tedeschi, una deputata verde del Bundestag e un suo collega cristianodemocratico, che erano in visita in Tanzania per un progetto di aiuti allo sviluppo e di tutela ambientale. “Ci hanno dato informazioni più chiare”, dice Kibwana. L’incontro con i due politici tedeschi, però, le ha causato dei problemi perché è stata convocata dal comitato per la sicurezza dell’amministrazione distrettuale. Gli abitanti di Ilindi, infatti, avevano cominciato a pretendere chiarimenti dai loro politici. Al momento, conclude Kibwana, la costruzione della scuola e quella della strada sono ancora in ballo, ma l’azienda non sembra voler impegnarsi di più.

Davanti al negozio del paese ci si prepara al sabato sera bevendo un bel po’ di birra. Un uomo solleva la bottiglia e con voce impastata dice: “Ci rifiutiamo di ubbidire”. Pochi metri più in là prende la parola un vecchio contadino. È sobrio e parla in tono deciso: “Mi restano pochi annida vivere ma voglio che i miei nipoti possano rimanere qui. Ho scritto tre lettere al governo e finora non si è visto nessuno”. Poi aggiunge, quasi gridando: “Se noi cittadini non abbiamo diritti, tanto vale che ci sparino”.

Charlotte Wiedemann, Die Zeit (tradotto da Internazionale n° 898)

L’uranio e l’Africa

Nel 2010 i primi cinque produttori mondiali di uranio sono stati Kazakistan (17.8o3 tonnellate), Canada (9.783 tonnellate), Australia (5.900 tonnellate), Namibia (4.496 tonnellate) e Niger (4.198 tonnellate).

La miniera Rössing, in Namibia, è la terza più produttiva del mondo. Attiva dal 1976, ha tra i suoi azionisti la multinazionale Rio Tinto (69%) e l’Iran (15%). Il governo namibiano ha annunciato di voler sviluppare un programma nucleare nazionale e progetta di costruire i primi reattori entro il 2o18. Nei prossimi anni prevede di aprire cinque nuove miniere, anche se si trovano in un territorio dichiarato parco nazionale.

La principale miniera nigerina è quella di Arlit, nel nord del paese, gestita dall’azienda francese Areva. L’uranio estratto in Niger alimenta 59 centrali nucleari francesi, che producono l’80% del fabbisogno di energia della Francia. Il Niger, invece, ottiene la sua elettricità solo dai combustibili fossili o importandola dalla Nigeria.

da missioni-africane.org

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