martedì 30 agosto 2011

Le miniere d'uranio in Val Vedello

Ho trovato questo post da un blog mentre ero alla ricerca di notizie sull'uranio, lo pubblico per non perdere d'occhio la questione nucleare che il nostro governo ha tentato di rinviare al 2012, sovvertendo il voto referendario. Sottolineo che questo post è datato 2007, quindi non risente dell'onda della campagna referendaria ultima. (più tardi pubblicherò l'altra notizia sull'uranio dal quale sono partito con la ricerca)

Siamo a metà degli anni ’70. In molti si sono ormai abituati alle dighe, divenute parte integrante del paesaggio di queste zone, ma questa volta è nel cuore della montagna che qualcuno vede la possibilità d’arricchirsi. Fasi di prospezione mineraria evidenziano la presenza di filoni uraniferi in Val Vedello a quasi 2000 metri di quota. Inizia così una nuova ondata di sconvolgimenti ambientali che si concluderà dieci anni dopo con l’abbandono del progetto.

Ho voluto raccontarvi questa vicenda attraverso le parole di chi, come il mio amico Piero, in quei posti ci ha lavorato e, pur pensando ai benefici energetico-economici che si possono trarre dall’uranio, ha visto gli effetti collaterali e i pericoli dell’attività estrattiva (intervista tratta da "Le montagne divertenti. Viaggio fra le vette dimenticate").

“Per quanto tempo hai lavorato lì? Che facevi?”

“Dal 1979 al 1983, due anni prima della definitiva chiusura delle miniere. Ero addetto ai carotaggi. Estraevamo i campioni di roccia dove lo diceva l’Agip”.

“Le miniere furono chiuse perché non fu trovato abbastanza uranio?”

“Non so se sia quella la ragione. A quel tempo si diceva che la fascia orobica da Agneda a Castello Dell’Acqua fosse una delle zone d’Europa più promettenti per la coltivazione dell’uranio. Il progetto di ricerca nella Val Vedello fu frutto di un’iniziativa italiana nata in seguito ad alcune rilevazioni e studi geologici sul territorio. Vide l’interesse di consulenti e gruppi di universitari stranieri che venivano spesso a visitare la miniera.

Può darsi, però, che i filoni del minerale all’interno della montagna non avessero la consistenza sperata e perciò si decise d’abbandonare la costosa ricerca.

“Cosa mi dici della miniera e della vita lassù?”

“Nella spianata a quota 2000 c’erano le baracche con la mensa, i dormitori, l’infermeria e gli uffici. Se sali si vedono i ganci nel cemento che le ancoravano a terra, l’ultima volta che sono stato lassù ho ancora riconosciuto la dislocazione di tutte le strutture. Poco dopo la diga di Scais c’è la tettoia di metallo da cui partiva la funicolare. Insomma, era una città in miniatura con tutti i servizi. C’era pure un guida alpina che, essendo infermiere diplomato, diventava all’occorrenza “medico” per il primo soccorso.

Salivamo nella stagione buona con le gip o le moto da Agneda, una ditta si occupava del trasporto. In inverno, invece, quelli dell’Agip non si fidavano a passare sotto la costa della montagna, per via delle valanghe. Allora si prendeva l’elicottero da Piateda. Lì c’era un hangar costruito apposta.

Nelle miniere si facevano i turni, eravamo più squadre. Gli scavi non si fermavano mai, ventiquattro ore al giorno tutta la settimana. Gli orari erano pesanti, i turni erano di dodici ore. Si lavorava per 10 giorni consecutivi, poi eri mandato a casa per tre. Lassù non c’era nient’altro da fare e allora si scavava finché si riusciva. Pensa, d’inverno, quando avevi il turno di giorno, non vedevi mai la luce del sole perché era notte sia quando entravi nella montagna sia quando uscivi.

All’interno delle gallerie si facevano carotaggi profondi fino a cinquanta metri, entro nicchie che quelli dell’Agip comandavano ai minatori, mentre all’esterno siamo scesi fino a trecento metri. Il macchinario in quei casi era ancorato alla roccia perché non si ribaltasse. I minatori ci preparavano i ganci. Una volta, per un gancio messo male, ce la siamo vista brutta. La torre su cui era montata la fresa è caduta su un lato. Per fortuna nessuno si è fatto male. Da allora la ancoravamo anche a mezza altezza con degli ulteriori ganci di sicurezza. Durante i carotaggi a volte filava tutto liscio e dovevi solo badare alla pressione dell’acqua, altre volte s’incontravano fasce di roccia lamellare e marcia che intasavano la punta diamantata. Dovevamo quindi estrarre tutti gli assi, ed erano lunghi tre metri l’uno, ripulire la punta e rimontare tutto. Nei momenti peggiori ciò accadeva ogni 30 centimetri di scavo.

Le carote estratte andavano riposte ordinatamente in cassette di legno. I tecnici dell’Agip facevano una prima analisi sommaria. Quelle ritenute interessanti erano portate via dall’elicottero, le altre gettate via. Un mio collega con 2 carote grosse ci ha fatto il caminetto”.

“Che s’illumina anche quando è spento!” aggiunge scherzando Alan, che è lì ad ascoltare.

“La gente andava in discarica a prenderne altre per scopi edili, - continua Piero - sono rocce molto belle e poi già perfettamente lavorate”.

Piero va in garage a prendere due spezzoni di carote per mostrarmeli, mentre Alan, ridendo, finge di schermarsi dalle radiazioni usando un vassoio di rame. Piero mi regala uno di quei frammenti, che ora tengo sulla scrivania contro il malocchio e gli errori di battitura al computer. E’ molto appariscente, specie se bagnato. Ha venature verdi e grigie con macchie rossastre.

“Non era pericoloso quel lavoro?”

“Eravamo molto controllati. Ci mandavano ogni due mesi a Sondrio a fare gli esami, ogni quattro a Pavia a farne altri più completi. Vestivamo una piastrina come quella dei tecnici in radiologia che misurava quante radiazioni avevamo assorbito. Ogni mese consegnavi la piastrina e te n’era data una nuova. Una volta risultò che avevo preso zero virgola zero, zero di radiazioni, insomma nulla di pericoloso. Per il resto non è mai successo niente”.

Piero ci guarda e capisce che le ragioni non bastano e aggiunge: “Poi ci davano tre milioni al mese, che per i primi anni ottanta erano un sacco di soldi. Da nessuna parte ti avrebbero pagato tanto”.

“Dei danni ambientali non ne sai nulla? Pare che in quegli anni ci fossero accese fervide polemiche per l’impennata dei valori di radioattività nelle acque degli effluenti della diga di Scais.”

“Devi sapere che la sonda iniettava nel foro grandi quantità d’acqua che poi riuscivano in superficie e defluivano liberamente. Queste acque, che avevano concentrazioni d’uranio nettamente superiori a quelle delle acque superficiali raggiungevano la diga di Scais e quindi finivano a valle [ndr. si parla di concentrazioni di uranio nelle acque fuoriuscenti dalle gallerie da 10 a 100 volte superiori alle acque esterne, fra i 10 e i 120 mg/L, come confermano i dati ufficiali pubblicati agli inizi degli anni ’80 in fase di prospezione mineraria ]. Quando fu dato l’ordine di smantellare si sapeva che, secondo accordi presi dall’Agip all’apertura della miniera, si sarebbe dovuto ripristinare nella valle lo stato delle cose antecedente ai lavori. A quanto pare gli accordi non furono rispettati e molte cose sono state lasciate all’abbandono, come può facilmente constatare chiunque salga lassù ”.

So che per molti non si possono criticare le cossidette “fonti di energia pulite” e che quindi questo articolo possa sembrare un insulto al comune buon senso.

Ma si può definire pulito solo ciò che non danneggia l’uomo, non sarebbe meglio considerare la natura in generale?

Io resto dell’idea che la migliore fonte d’energia sia il consumare meno, senza cercare sfruttare tutte le possibilità che la natura ci offre. Bisognerebbe vivere in armonia con il proprio territorio e non tentare di plasmarlo a misura d’uomo, come se fossimo in preda a illogici deliri d’onnipotenza. Anche le ali di Icaro si sciolsero quando cercò d’avvicinarsi troppo al sole.

23 FEBBRAIO 2007

da schifezzeinvaltellina.blogspot.com

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