mercoledì 31 agosto 2011

Ozio

Stirakkio un braccio, mi rigiro, poi l'altro
Una brezza asciuga timide gocce di sudore sulla mia fronte
Il ficus mi regala ombra e fresco, in questa giornata torrida
Me la godo, con avidità
E dono alla natura serenità
Uno scambio sinallagmatico
Non oneroso e senza firma


martedì 30 agosto 2011

Tanzania: l’uranio che sconvolge la vita

Le multinazionali minerarie sperano di estrarre milioni di tonnellate di uranio dal bacino di Bahi, in Tanzania. Il governo ha dato il via libera, ma gli abitanti della regione sanno quali sono i rischi e protestano.

La lunga strada dritta attraversa la pianura ampia e brulla. Questa non è la Tanzania dei turisti con la cima innevata del Kilimangiaro e le colline verdi: siamo nel centro del paese, in una regione calda, arida e povera. Le rocce creano forme strane e solo i cactus danno un tocco di verde. Qua e là spunta un albero del fuoco, una fiamma che spicca sullo sfondo marrone.

Dalla strada asfaltata si dirama una pista di sabbia. Da ocra, il colore della terra diventa grigio cemento. Gli occhi di un europeo vedono solo siccità e miseria: non è un posto dove vivere né dove fermarsi per una sosta. Ma quelli che abitano queste terre lottano proprio per restare. Il futuro della loro terra è minacciato da una parola che qui, fino a poco tempo fa, nessuno conosceva: “uranio”, un termine che in swahili non esiste nemmeno.

Due aziende australiane pronte per l’estrazione

L’imponente bacino di Bahi nasconde 14 milioni di tonnellate di uranio. Due aziende australiane, Mantra Resources e Uranex, vogliono cominciare presto a estrarlo, qui e nel sud del paese. Dietro a Mantra Resources c’è il colosso minerario anglo-australiano Rio Tinto, uno dei più grandi del mondo. Tra la polvere dei paesi dell’Africa orientale si vedono le conseguenze di decisioni prese a migliaia di chilometri di distanza. La prospettiva di un ritorno all’energia nucleare ha fatto aumentare la domanda mondiale di uranio, il cui prezzo è salito alle stelle.

Ogni tanto si vedono passare pecore, capre e mandrie di mucche magre. La terra è grigia e piatta, ma durante la stagione delle piogge crescerà il riso, che viene coltivato su molti ettari. Quando piove, il bacino si riempie, forma corsi d’acqua sotterranei e di superficie che sfociano nel lago di Bahi, così ricco di pesci che sulle sue rive sono nati dei villaggi. La regione, che nel periodo di siccità sembra morta, dà da vivere a molte persone, non solo a quelle che ci abitano.

Nella zona del bacino di Bahi si scontreranno presto due modelli di sviluppo: l’agricoltura di sussistenza dei contadini e l’industria mineraria, a cui servono le risorse della terra, e non la gente del posto. Nel villaggio di Makulu le case sono fatte di pali e di terra grigia. Gaitan Iniyasi Iputu è un coltivatore di riso magro, alto ed energico, che vive con la famiglia composta da 42 persone. Iputu sa che sono tutti in pericolo. “Non riesco a pensare ad altro”, confessa.

La gente non si fida del governo

Quattro edifici delimitano un cortile con al centro un recinto per il bestiame. Iputu ha dieci figli e, come ci tiene a sottolineare, “solo una moglie: sono cattolico!”. Nel primo edificio si trova la sala per ricevere gli ospiti e nella penombra si vedono brillare gli occhi di tre vitelli neri. Alcuni polli beccano il grano vicino a delle panche di legno consumato. Una casa solida, almeno per il momento.

Un giorno è arrivato il vice-ministro per l’industria mineraria, racconta Iputu. Non ricorda come si chiama ma non ha dimenticato il succo del suo discorso: quando sarà il momento, lui e la sua famiglia dovranno andarsene. “Spero che il governo ci indicherà dove. Ma perché mai hanno portato qui quelle persone?”. Iputu può solo sperare nell’aiuto del governo, di cui non si fida. Dell’uranio sa solo che serve per “l’elettricità e le armi”, per il resto ha le idee confuse. Ci sono gli Stati Uniti dietro a questi affari? Una volta George W. Bush è venuto in visita in Tanzania, spiega. Dev’esserci per forza un collegamento.

A Bahi, il villaggio più grande della zona, alcuni giovani contadini s’incontrano davanti al punto di raccolta del riso. È mezzogiorno, il sole è cocente e i sacchi di riso bianchi riflettono la luce. Un ragazzo di circa trent’anni ha ascoltato alla radio il dibattito parlamentare sull’uranio. Ne è venuto a conoscenza in questo modo, anche se la questione lo riguarda da vicino. È molto arrabbiato e se la prende con i pedali della bicicletta.

Per gli abitanti del luogo la parola “uranio” è difficile da pronunciare perché nella loro lingua non esiste la “r”. Così usano altri termini: il progetto, la cosa, i minerali. Ancora più difficile è farsi un’idea del disastro ambientale causato dall’estrazione dell’uranio. La concentrazione di minerale nella roccia è molto bassa perciò bisogna smuovere immense quantità di materiale, che vanno a formare delle grandi discariche di polveri radioattive.

In seguito, il minerale è sottoposto a un trattamento di lisciviazione per estrarre l’ossido metallico e durante questo processo si accumulano grandi quantità di rifiuti tossici. Dopo l’estrazione dell’uranio, rimangono nell’area i prodotti del decadimento dell’uranio, che sono radioattivi.

Il processo decisionale non può ecludere la popolazione locale

Spinto dalla curiosità e dalla paura, Anthony Lyamunda si è informato sull’argomento. Lui ha studiato ingegneria e ora cerca di informare gli altri abitanti. Per questo dirige Cesope, un’organizzazione cristiana il cui nome sta per “l’educazione civica è la soluzione alla povertà e ai problemi ambientali”. Lyamunda ne è profondamente convinto: “Le persone che vivono in questa regione devono poter decidere il loro futuro sulla base di informazioni chiare, partecipando a un processo decisionale trasparente e corretto”. Peccato che le autorità non abbiano alcun interesse a farlo.

Il giovane ingegnere sa bene quali sono state le conseguenze dell’estrazione di uranio negli altri paesi africani. Lyamunda è stato in Namibia, dove si trova la miniera a cielo aperto di uranio più grande del mondo. La miniera Rössing - dietro la quale c’è sempre la multinazionale Rio Tinto - è attiva da trent’anni ma il paese non ha ancora una legge per la protezione dalle radiazioni.

Duecentocinquanta milioni di tonnellate di rifiuti tossici vengono smaltiti in quello che un tempo era il letto di un fiume. Lyamunda sa anche che in Niger l’estrazione di uranio è in mano all’azienda pubblica francese Areva, che gestisce anche un ospedale locale da dove non è mai uscita una diagnosi di cancro ai polmoni.

Lyamunda si è ritrovato catapultato in questo mondo perché è nato nella regione di Bahi. E a poco a poco ha scoperto quanto sono potenti i suoi avversari. Ma scrolla le spalle: non è uno che parla volentieri delle sue paure.

Anche i capi religiosi vogliono dire la loro

Seminari, riunioni, conferenze: le ong cercano in tutti i modi di far sentire le proteste dei contadini. Tre anni fa, un primo comitato formato dagli abitanti della regione di Bahi si è rivolto al governo per chiedere di interrompere le esplorazioni dei siti per l’estrazione di uranio. Nella capitale quest’appello ha ricevuto l’appoggio dei capi di diversi gruppi religiosi: musulmani, cattolici, mennoniti, anglicani, avventisti del settimo giorno.

Ramadhani Issa, l’imam di Bahi, ha partecipato alle proteste fin dal primo giorno. Con il suo copricapo rosso, è seduto sotto un quadro della Sacra famiglia nella scuola della missione cattolica con alcune centinaia di altre persone. L’uranio unisce tutti, cristiani e musulmani, nonostante in Tanzania siano frequenti le tensioni tra i due gruppi religiosi. L’imam ha cinquant’anni, è robusto, sicuro di sé, ama scherzare e cerca spesso la complicità degli altri.

È più istruito rispetto alla media degli abitanti del villaggio e quando la comunità si riunisce ne approfitta per parlare dell’uranio. Ramadhani racconta con tono sprezzante che un giorno ha chiesto spiegazioni ai rappresentanti delle aziende minerarie impegnati in alcune trivellazioni. Gli hanno risposto che stavano solo verificando la qualità del terreno. “Alcune persone sperano di ottenere un risarcimento”, aggiunge. “Ma sono degli illusi. Mi fanno pena”.

Come succede in altri paesi africani, gli agricoltori della Tanzania non hanno un documento di proprietà delle loro terre. Secondo il diritto consuetudinario, se qualcuno coltiva un campo per molti anni ne diventa il proprietario, ma queste usanze non contano nulla agli occhi degli investitori stranieri che hanno ricevuto il via libera dal governo.

Contratti minerari svantaggiosi per il paese

La Tanzania è un paese ricco di risorse ma i contratti statali con le aziende straniere favoriscono nettamente gli investitori. Lo stesso vale per l’industria aurifera. Nel 2009 la Tanzania ha esportato oro per un valore di 1,2 miliardi di dollari ma al paese è rimasto ben poco, afferma il giudice ed ex Attorney General Mark Bomani.

Infatti si applicano ancora le condizioni negoziate da governo e imprenditori negli anni novanta, quando l’oro costava un quinto rispetto a oggi. Inoltre le compagnie che sfruttano i giacimenti d’oro (si tratta soprattutto di aziende canadesi), operano in un clima d’impunità, come denuncia un rapporto redatto da alcune organizzazioni cristiane e musulmane. E i minatori che osano rivendicare i loro diritti vengono licenziati in massa.

“Come può succedere che qualcuno arrivi, si porti via tutte le ricchezze del paese e lasci alla gente del posto solo giganteschi crateri nella roccia e risarcimenti ridicoli?”, protesta un giornalista del quotidiano The Citizen. “Dov’è il governo di questo paese? Di cos’ha paura? Il popolo della Tanzania non conta niente?”.

Da decenni il governo è in mano allo stesso partito, Chama Cha Mapinduzi (Ccm, partito della rivoluzione), che un tempo era l’unico. Secondo alcuni esperti di economia tanzaniani, al Ccm mancano la volontà e le competenze per modificare le leggi che regolano l’industria mineraria. Nel Revenue watch index - l’indice che valuta la trasparenza dei governi riguardo alle entrate derivanti dalle risorse naturali - la Tanzania non è certo ai primi posti.

Le aziende minerarie hanno il coltello dalla parte del manico

Le aziende che estraggono l’uranio approfittano di questa situazione. La stampa filogovernativa dà risalto ai loro comunicati: la Tanzania sarà il terzo produttore africano di uranio, l’ottavo a livello mondiale. I mezzi d’informazione indipendenti, invece, sono più critici. Il paese ha bisogno di un comitato di controllo che non si sottometta alle aziende straniere, denuncia The Guardian: “Le autorità dovrebbero sapere che quando si verrà a conoscenza di casi di decessi legati all’uranio, le aziende responsabili diranno che mancano le prove.”

L’uranio e i diritti civili: è nato un nuovo modo di pensare in Africa. Siamo ancora agli inizi ma le persone cominciano a organizzarsi. In Malawi il ruolo dell’esperto tanzaniano Lyamunda viene svolto da un giovane avvocato che dirige il movimento Citizen for justice. In Namibia lo fa la direttrice di un istituto per la tutela delle condizioni di lavoro.

La sua indagine sui minatori di Rössing, tra cui sono state riscontrate delle “malattie inspiegabili”, è risultata molto scomoda alla lobby dell’uranio. I nigerini che vivono negli Stati Uniti hanno intentato una class action contro il gruppo francese Areva e chiedono indennizzi per miliardi di euro.

Ilindi è l’ultima tappa del viaggio nella terra dell’uranio. È un paesino di settemila abitanti che vivono in piccoli agglomerati di case e cortili. A Ilindi il conflitto dura ormai da tempo. L’area destinata a ospitare la miniera è talmente a ridosso del paese che gli abitanti sono convinti di avere voce in capitolo. Tra l’altro in Tanzania c’è una legge che richiede il consenso degli abitanti per decisioni di questo tipo.

Vedendo arrivare una giornalista, gli uomini del villaggio si scaldano: perché non ha organizzato una riunione? Si forma subito un gruppetto di persone che discutono animatamente. Le interviste si fanno solo pubblicamente e in nome di tutta la comunità. Perché non si sa mai che qualcuno scriva che Ilindi è a favore della miniera. L’atmosfera è tesa, le persone sono diffidenti.

È sabato pomeriggio e Mwanahamisi Kibwana, un’impiegata del comune, sta stirando con un ferro pesantissimo che mette a scaldare su un braciere. La radio trasmette musica a tutto volume. Kibwana, avvolta in un abito batik, sposta il suo corpo robusto su una sedia, con voce energica copre il vocio della radio e racconta entusiasta le vicissitudini di Ilindi.

Il dibattito è ancora aperto

“Le aziende si sono fatte rilasciare solo l’autorizzazione del governo senza interpellarci. C’è stata una prima riunione in paese e, in cambio del consenso per la miniera, abbiamo chiesto contributi per la costruzione di una scuola e di una strada”. A quel punto il capo di un’azienda australiana è andato di persona a Ilindi. Altra riunione. Lui non ha fatto promesse, però ha detto che se gli abitanti avessero acconsentito alla costruzione della miniera, ne avrebbero sicuramente tratto dei vantaggi.

In seguito sono arrivati due tedeschi, una deputata verde del Bundestag e un suo collega cristianodemocratico, che erano in visita in Tanzania per un progetto di aiuti allo sviluppo e di tutela ambientale. “Ci hanno dato informazioni più chiare”, dice Kibwana. L’incontro con i due politici tedeschi, però, le ha causato dei problemi perché è stata convocata dal comitato per la sicurezza dell’amministrazione distrettuale. Gli abitanti di Ilindi, infatti, avevano cominciato a pretendere chiarimenti dai loro politici. Al momento, conclude Kibwana, la costruzione della scuola e quella della strada sono ancora in ballo, ma l’azienda non sembra voler impegnarsi di più.

Davanti al negozio del paese ci si prepara al sabato sera bevendo un bel po’ di birra. Un uomo solleva la bottiglia e con voce impastata dice: “Ci rifiutiamo di ubbidire”. Pochi metri più in là prende la parola un vecchio contadino. È sobrio e parla in tono deciso: “Mi restano pochi annida vivere ma voglio che i miei nipoti possano rimanere qui. Ho scritto tre lettere al governo e finora non si è visto nessuno”. Poi aggiunge, quasi gridando: “Se noi cittadini non abbiamo diritti, tanto vale che ci sparino”.

Charlotte Wiedemann, Die Zeit (tradotto da Internazionale n° 898)

L’uranio e l’Africa

Nel 2010 i primi cinque produttori mondiali di uranio sono stati Kazakistan (17.8o3 tonnellate), Canada (9.783 tonnellate), Australia (5.900 tonnellate), Namibia (4.496 tonnellate) e Niger (4.198 tonnellate).

La miniera Rössing, in Namibia, è la terza più produttiva del mondo. Attiva dal 1976, ha tra i suoi azionisti la multinazionale Rio Tinto (69%) e l’Iran (15%). Il governo namibiano ha annunciato di voler sviluppare un programma nucleare nazionale e progetta di costruire i primi reattori entro il 2o18. Nei prossimi anni prevede di aprire cinque nuove miniere, anche se si trovano in un territorio dichiarato parco nazionale.

La principale miniera nigerina è quella di Arlit, nel nord del paese, gestita dall’azienda francese Areva. L’uranio estratto in Niger alimenta 59 centrali nucleari francesi, che producono l’80% del fabbisogno di energia della Francia. Il Niger, invece, ottiene la sua elettricità solo dai combustibili fossili o importandola dalla Nigeria.

da missioni-africane.org

Il governo propone incentivi a chi privatizza i servizi pubblici: “Referendum stravolti”

Non è bastato il referendum del 12 e 13 giugno, non è stato sufficiente che ventisette milioni di italiani si recassero alle urne, né quel quorum così tradizionalmente difficile raggiungere. La manovra economica spalanca le porte alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, offrendo peraltro incentivi economici agli enti locali che sceglieranno questa strada. Con lo slogan “l’acqua la lasciamo fuori”, il governo tira però dentro i trasporti, gli asili, i rifiuti, e tutti quei servizi che rientrano nella categoria di servizi pubblici locali e che quindi, al pari del servizio idrico, erano toccati dal quesito referendario numero uno. “Per fare un esempio – spiega Andrea Caselli del comitato referendario Acqua bene comune emiliano-romagnolo – con questa manovra potrebbe essere ceduta una parte dell’azienda dei trasporti pubblici. La furbizia di tener fuori l’acqua dalla manovra significa solo aggirare la questione, perché il referendum non riguardava solo il servizio idrico. Penso che l’opposizione sociale si allargherà e spero che avremo con noi anche gli amministratori locali”.

Cosa ne pensano i sindaci? Il fattoquotidiano.it è andato a bussare alle porte del sindaco del capoluogo dell’Emilia Romagna, Virginio Merola, e del primo cittadino di Reggio Emilia, Graziano Delrio, che è anche presidente dell’Anci. Dal Comune di Bologna la reazione per ora è il silenzio: il sindaco bolognese promette di esprimersi sui singoli provvedimenti della manovra ma solo quando il tutto sarà definitivo. Il presidente dell’Anci invece è pronto ad annunciare battaglia. “La nostra posizione è chiara e unanime, l’articolo 4 della manovra reintroduce di fatto l’articolo 23 bis abrogato con il referendum”.

Delrio parla di “un’operazione illegittima sul piano costituzionale” e riferisce che i sindaci, “siano essi di destra o di sinistra”, sono compatti contro questo provvedimento. I motivi? “Interviene sulle competenze dei comuni e delle autonomie. E’ una norma che lede il referendum. Obbliga ad alienare quote di società e a vincolare la vendita a scadenze temporali. In sostanza, devalorizza il patrimonio dei Comuni e non vedo quindi come possa aiutare la finanza pubblica”.

Delrio parla al plurale e fino ad ora l’opposizione all’articolo 4 ha già trovato i suoi alleati più convinti fuori dai confini della regione: nelle due città, Milano e Napoli, che solo un mese prima del referendum furono protagoniste della “rivoluzione arancione”, le reazioni sono dure e immediate. Cristina Tajani, assessore allo sviluppo economico della giunta di Pisapia, giudica un errore la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità e chiede che il provvedimento venga modificato: “Se venisse assegnata ai privati la gestione di settori in cui la concorrenza non può esistere, come quella del trasporto pubblico, si darebbe il via di fatto ai monopoli privati”. Anche la Napoli di De Magistris lavora contro l’articolo 4 della manovra. Alberto Lucarelli, assessore ai beni comuni, un incarico che parla da sé, rivendica anche una storia personale che “dà coerenza a quel ruolo”: oltre che professore universitario di diritto pubblico, “sono stato estensore dei quesiti referendari e ho introdotto in Italia il dibattito giuridico sui beni comuni”, spiega. “Perciò posso dire con cognizione di causa che la manovra riproponendo le privatizzazioni non solo va contro la volontà espressa dagli elettori, ma agisce in contrasto con il diritto comunitario e con la stessa costituzione”.

Questa la ragione dell’appello nazionale (http://www.siacquapubblica.it/) promosso da Lucarelli e dai suoi colleghi giuristi Ugo Mattei, Università di Torino, Luca Nivarra, Università di Palermo, Gaetano Azzariti, Università di Roma La Sapienza. Una lunghissima fila di firme è allegata al testo, a cominciare dall’ex magistrato Livio Pepino e dal missionario Alex Zanotelli. “L’Unione europea non impone forme di privatizzazione forzata, lascia solo una facoltà, non a caso Parigi ha scelto di ripubblicizzare l’acqua. In Italia, prima con Lanzillotta, poi con Ronchi, si è tentato di procedere con la privatizzazione forzata. Anche gli incentivi previsti in questa manovra per chi privatizza sono una forma di pressione, incidono sul potere di scelta degli enti locali”, spiega Lucarelli. “La Corte costituzionale aveva detto chiaramente che il referendum non era limitato all’acqua – continua Ugo Mattei – e invece ora vogliono limitare il più possibile quel Sì, delegittimarne la portata politica”.

“Politicamente siamo senza voce”, lamenta il professore torinese, “c’è un’asse che comprende maggioranza e opposizione a cui va bene vendere i servizi pubblici”. Nel frattempo si dichiarano contro le privatizzazioni il sindacato Cgil e alcune realtà associative. Codacons urla allo scippo: quel capitolo dell’articolo 4 della manovra, chiamato “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’unione europea”, di fatto ripristina il testo abolito con il voto. Il comitato referendario, in Emilia Romagna e non solo, scalda i motori. E assieme ai giuristi firmatari dell’appello promette: “Quel provvedimento verrà impugnato davanti alla Corte costituzionale”.

da ilfattoquotidiano.it

Le miniere d'uranio in Val Vedello

Ho trovato questo post da un blog mentre ero alla ricerca di notizie sull'uranio, lo pubblico per non perdere d'occhio la questione nucleare che il nostro governo ha tentato di rinviare al 2012, sovvertendo il voto referendario. Sottolineo che questo post è datato 2007, quindi non risente dell'onda della campagna referendaria ultima. (più tardi pubblicherò l'altra notizia sull'uranio dal quale sono partito con la ricerca)

Siamo a metà degli anni ’70. In molti si sono ormai abituati alle dighe, divenute parte integrante del paesaggio di queste zone, ma questa volta è nel cuore della montagna che qualcuno vede la possibilità d’arricchirsi. Fasi di prospezione mineraria evidenziano la presenza di filoni uraniferi in Val Vedello a quasi 2000 metri di quota. Inizia così una nuova ondata di sconvolgimenti ambientali che si concluderà dieci anni dopo con l’abbandono del progetto.

Ho voluto raccontarvi questa vicenda attraverso le parole di chi, come il mio amico Piero, in quei posti ci ha lavorato e, pur pensando ai benefici energetico-economici che si possono trarre dall’uranio, ha visto gli effetti collaterali e i pericoli dell’attività estrattiva (intervista tratta da "Le montagne divertenti. Viaggio fra le vette dimenticate").

“Per quanto tempo hai lavorato lì? Che facevi?”

“Dal 1979 al 1983, due anni prima della definitiva chiusura delle miniere. Ero addetto ai carotaggi. Estraevamo i campioni di roccia dove lo diceva l’Agip”.

“Le miniere furono chiuse perché non fu trovato abbastanza uranio?”

“Non so se sia quella la ragione. A quel tempo si diceva che la fascia orobica da Agneda a Castello Dell’Acqua fosse una delle zone d’Europa più promettenti per la coltivazione dell’uranio. Il progetto di ricerca nella Val Vedello fu frutto di un’iniziativa italiana nata in seguito ad alcune rilevazioni e studi geologici sul territorio. Vide l’interesse di consulenti e gruppi di universitari stranieri che venivano spesso a visitare la miniera.

Può darsi, però, che i filoni del minerale all’interno della montagna non avessero la consistenza sperata e perciò si decise d’abbandonare la costosa ricerca.

“Cosa mi dici della miniera e della vita lassù?”

“Nella spianata a quota 2000 c’erano le baracche con la mensa, i dormitori, l’infermeria e gli uffici. Se sali si vedono i ganci nel cemento che le ancoravano a terra, l’ultima volta che sono stato lassù ho ancora riconosciuto la dislocazione di tutte le strutture. Poco dopo la diga di Scais c’è la tettoia di metallo da cui partiva la funicolare. Insomma, era una città in miniatura con tutti i servizi. C’era pure un guida alpina che, essendo infermiere diplomato, diventava all’occorrenza “medico” per il primo soccorso.

Salivamo nella stagione buona con le gip o le moto da Agneda, una ditta si occupava del trasporto. In inverno, invece, quelli dell’Agip non si fidavano a passare sotto la costa della montagna, per via delle valanghe. Allora si prendeva l’elicottero da Piateda. Lì c’era un hangar costruito apposta.

Nelle miniere si facevano i turni, eravamo più squadre. Gli scavi non si fermavano mai, ventiquattro ore al giorno tutta la settimana. Gli orari erano pesanti, i turni erano di dodici ore. Si lavorava per 10 giorni consecutivi, poi eri mandato a casa per tre. Lassù non c’era nient’altro da fare e allora si scavava finché si riusciva. Pensa, d’inverno, quando avevi il turno di giorno, non vedevi mai la luce del sole perché era notte sia quando entravi nella montagna sia quando uscivi.

All’interno delle gallerie si facevano carotaggi profondi fino a cinquanta metri, entro nicchie che quelli dell’Agip comandavano ai minatori, mentre all’esterno siamo scesi fino a trecento metri. Il macchinario in quei casi era ancorato alla roccia perché non si ribaltasse. I minatori ci preparavano i ganci. Una volta, per un gancio messo male, ce la siamo vista brutta. La torre su cui era montata la fresa è caduta su un lato. Per fortuna nessuno si è fatto male. Da allora la ancoravamo anche a mezza altezza con degli ulteriori ganci di sicurezza. Durante i carotaggi a volte filava tutto liscio e dovevi solo badare alla pressione dell’acqua, altre volte s’incontravano fasce di roccia lamellare e marcia che intasavano la punta diamantata. Dovevamo quindi estrarre tutti gli assi, ed erano lunghi tre metri l’uno, ripulire la punta e rimontare tutto. Nei momenti peggiori ciò accadeva ogni 30 centimetri di scavo.

Le carote estratte andavano riposte ordinatamente in cassette di legno. I tecnici dell’Agip facevano una prima analisi sommaria. Quelle ritenute interessanti erano portate via dall’elicottero, le altre gettate via. Un mio collega con 2 carote grosse ci ha fatto il caminetto”.

“Che s’illumina anche quando è spento!” aggiunge scherzando Alan, che è lì ad ascoltare.

“La gente andava in discarica a prenderne altre per scopi edili, - continua Piero - sono rocce molto belle e poi già perfettamente lavorate”.

Piero va in garage a prendere due spezzoni di carote per mostrarmeli, mentre Alan, ridendo, finge di schermarsi dalle radiazioni usando un vassoio di rame. Piero mi regala uno di quei frammenti, che ora tengo sulla scrivania contro il malocchio e gli errori di battitura al computer. E’ molto appariscente, specie se bagnato. Ha venature verdi e grigie con macchie rossastre.

“Non era pericoloso quel lavoro?”

“Eravamo molto controllati. Ci mandavano ogni due mesi a Sondrio a fare gli esami, ogni quattro a Pavia a farne altri più completi. Vestivamo una piastrina come quella dei tecnici in radiologia che misurava quante radiazioni avevamo assorbito. Ogni mese consegnavi la piastrina e te n’era data una nuova. Una volta risultò che avevo preso zero virgola zero, zero di radiazioni, insomma nulla di pericoloso. Per il resto non è mai successo niente”.

Piero ci guarda e capisce che le ragioni non bastano e aggiunge: “Poi ci davano tre milioni al mese, che per i primi anni ottanta erano un sacco di soldi. Da nessuna parte ti avrebbero pagato tanto”.

“Dei danni ambientali non ne sai nulla? Pare che in quegli anni ci fossero accese fervide polemiche per l’impennata dei valori di radioattività nelle acque degli effluenti della diga di Scais.”

“Devi sapere che la sonda iniettava nel foro grandi quantità d’acqua che poi riuscivano in superficie e defluivano liberamente. Queste acque, che avevano concentrazioni d’uranio nettamente superiori a quelle delle acque superficiali raggiungevano la diga di Scais e quindi finivano a valle [ndr. si parla di concentrazioni di uranio nelle acque fuoriuscenti dalle gallerie da 10 a 100 volte superiori alle acque esterne, fra i 10 e i 120 mg/L, come confermano i dati ufficiali pubblicati agli inizi degli anni ’80 in fase di prospezione mineraria ]. Quando fu dato l’ordine di smantellare si sapeva che, secondo accordi presi dall’Agip all’apertura della miniera, si sarebbe dovuto ripristinare nella valle lo stato delle cose antecedente ai lavori. A quanto pare gli accordi non furono rispettati e molte cose sono state lasciate all’abbandono, come può facilmente constatare chiunque salga lassù ”.

So che per molti non si possono criticare le cossidette “fonti di energia pulite” e che quindi questo articolo possa sembrare un insulto al comune buon senso.

Ma si può definire pulito solo ciò che non danneggia l’uomo, non sarebbe meglio considerare la natura in generale?

Io resto dell’idea che la migliore fonte d’energia sia il consumare meno, senza cercare sfruttare tutte le possibilità che la natura ci offre. Bisognerebbe vivere in armonia con il proprio territorio e non tentare di plasmarlo a misura d’uomo, come se fossimo in preda a illogici deliri d’onnipotenza. Anche le ali di Icaro si sciolsero quando cercò d’avvicinarsi troppo al sole.

23 FEBBRAIO 2007

da schifezzeinvaltellina.blogspot.com

lunedì 29 agosto 2011

Torre del Greco, appello per riaprire i passaggi a livello in Litoranea

Riaprire i sei passaggi a livello di via Litoranea finché non saranno risolti i problemi che rischiano di mettere in ginocchio le attività commerciali della zona. È l’appello lanciato dall’associazione “Per il rilancio di Torre del Greco” per salvaguardare l’economia del quartiere: a due mesi dall’inaugurazione della parallela al lungomare e a poche ore dall’iniziativa lanciata dall’amministrazione comunale per dare un nome – attraverso un sondaggio pubblicato sul sito ufficiale del Comune www.comune.torredelgreco.na.it– si alza il grido di dolore degli esercenti di via Lava Troia, via Ponte della Gatta, via Torretta Fiorillo, via Santa Maria la Bruna, via Mortelle e via Pagliarone.

Tutti riuniti, adesso, in un comitato civico nato per affrontare i disagi e i disservizi causati dalla (frettolosa) soppressione dei sei passaggi a livello che collegavano via Litoranea alle traverse che conducono su via Nazionale: un progetto – realizzato in sinergia tra l’ente di palazzo Baronale e le Ferrovie dello Stato – nato con l’intenzione di disciplinare il traffico sul lungomare cittadino, eliminando i pericoli (e le attese) provocati dalla presenza delle barriere. Un obiettivo che, secondo gli esercenti della zona, sarebbe stato centrato solo a metà. Perché se è vero che la circolazione delle auto durante l’estate non è andata in tilt come accadeva in passato è altresì vero che le attività commerciali di via Litoranea e dintorni hanno scontato in maniera evidente il mancato completamento delle opere progettate dal Comune e dalle Fs. Sei, in particolare, le criticità indicate dal comitato civico: in primis, la necessità di realizzare una passerella pedonale in via Mortelle (zona Postiglione) per consentire l’accesso alla chiesa di San Vincenzo a Postiglione; l’obbligo di costruire una passerella pedonale in via Santa Maria la Bruna, come inizialmente prevedeva il progetto; l’attivazione degli ascensori – finora mai entrati in funzione – per le persone anziane e i disabili; l’istallazione – alla luce dei frequenti assalti di writers e tossicodipendenti – di un servizio di videosorveglianza h24, collegato con le forze dell’ordine; il ripristino del servizio di trasporto pubblico (linea G) lungo la nuova strada realizzata e il via alle azioni esproprio per collegare il tratto di via Santa Maria la Bruna (zona scuola elementare Conte) con la parallela alla Litoranea, attraverso una strada privata presente in via I^ traversa Santa Maria la Bruna.

“Finché non saranno affrontate e risolte tali problematiche – la richiesta avanzata dai partecipanti all’incontro organizzato presso la sede dell’associazione Per il rilancio di Torre del Greco – chiediamo all’amministrazione comunale e alle Fs l’apertura temporanea di tutti e sei passaggi a livello, pure alla luce del chiaro danno economico apportato alle attività commerciali che adesso si trovano in strade cieche”. Un appello che sarà formalizzato in una lettera indirizzata al sindaco Ciro Borriello, all’assessore ai lavori pubblici Giovanni Sorrentino e al dirigente dell’ufficio tecnico del Comune.

ALBERTO DORTUCCI

da metropolisweb.it